Le origini della psicoanalisi interpersonale

La psiconalisi porta il linguaggio al di là del
piano logico del discorso razionale, fino alle
zone a-logiche della vita, e nel farlo induce a
parlare quella parte di noi che non è così muta
come sembrava quando era costretta al silenzio.

ma dalla linea dell’arco che esse formano.

(Paul Ricoeur)

L’individuo contemporaneo vive costretto in un legame patologico con gli oggetti ma è spinto da una rete sociale che si sente ma non si vede e per questo chiede aiuto ad un oggetto-Altro, il terapeuta, che si sente ma non si vede, che non appartiene al suo mondo reale.
La parola magica che ha da sempre accompagnato il processo terapeutico è stata interpretazione, una illuminazione improvvisa che consente al paziente di vedere in modo chiaro, dentro di sé; per meglio dire, degli insight che permetteranno all’Io del paziente quel cammino verso il raggiungimento del suo pieno sviluppo.
L’insistenza di Freud per tentare di dare alla psicoanalisi una validazione ed uno statuto scientifici lo portò ad assumere l’interpretazione sia come strumento di terapia che come prova metapsicologica, in altre parole, se l’interpretazione funzionava significava che la teoria era corretta e, se c’era una resistenza, significava che era corretta lo stesso. In questo modo l’analisi della resistenza e del transfert mirava a confermare il potere mutativo della psicoanalisi (Levenson, 2006).
La speranza utopica di vederla come scienza empirica dopo più di mezzo secolo di strenua resistenza vacillò, ed al suo posto si tentò di studiarla e di rifletterci su attraverso un nuovo paradigma: la scienza ermeneutica. Il termine deriva da Ermes, il messaggero degli dèi dell’Olimpo; egli portava la parola divina all’oracolo di Delfi, il quale lasciava sempre un margine di interpretazione per far si che il supplicante avesse una possibilità di scelta.

Non è possibile collocare la psicoanalisi nel campo della scienza

L’ermeneutica in psicoanalisi, sulla scia dei primi lavori di Spence e Schafer, ha introdotto l’idea che vi sia una pluralità di significati nelle narrazioni del paziente rispetto a un (presunto) senso unico che emergerebbe da una lettura e da una “traduzione” deterministica dei suoi derivati dell’inconscio, mettendo dunque l’accento sui mille possibili racconti e le mille possibili verità che possono scaturire dalla cura. Quanto detto è applicabile tanto al testo scritto quanto al linguaggio parlato, in generale dunque a qualsiasi struttura narrativa. Ora, non solo ciò che dicono separatamente il paziente e l’analista ma soprattutto il “dialogo analitico”, inteso come scambio dialogico, sono strutture narrative.Una prima conseguenza di questa tendenza è dunque il fatto che non è più possibile collocare la psicoanalisi, come fortemente sosteneva Freud, nel campo della scienza. Infatti se una narrazione vale l’altra e un’interpretazione vale l’altra cade ogni presupposto di verificabilità scientifica.
Il terapeuta e il paziente creano la loro storia, ed essa funziona non perché sia oggettivamente incontrovertibile ma perché è la loro verità emergente. Questo è l’humus dal quale sono nate le nuove tendenze della psicoanalisi contemporanea, che potremmo definire anche postfreudiana; si tenga anche conto del fatto che, in seguito agli studi sulle esperienze cliniche con i pazienti narcisistici, borderline e psicotici, si è andata via via strutturando una nuova concezione del setting analitico inteso come campo, in senso fisico, di forze in gioco, in cui si trovano simmetricamente immersi i membri della coppia analitica.

Il bisogno di una cura psicoanalitica che segua la complessità psichica del paziente

Dopo la rivoluzione freudiana con l’inconscio posto al centro del pianeta uomo, sta diventando man mano sempre più chiaro il bisogno di una cura psicoanalitica che segua la complessità psichica del paziente attuale sempre più tendente verso stati limite di funzionamento (borderline). Il tempo cronologico sempre più pressante ha minato un sistema difensivo che si era organizzato per combattere “nemici meno aggressivi e più prevedibili” e che ora necessita di una ristrutturazione. Se continuassimo a lavorare, prevalentemente, con le nevrosi classiche potremmo ritenere valido il modello dell’inconscio, ovverosia un serbatoio ove, per mezzo della rimozione, è possibile “scaricare” contenuti inaccettabili da parte dell’Io. Ma, spesso, dietro una nevrosi troviamo qualcos’altro. La cura psicoanalitica così, oltre a portare alla luce i pensieri inconsci attraverso l’interpretazione, permette, anche e soprattutto, di significare e rappresentare quegli stati affettivi che il paziente non ha potuto dotare di senso. La cura somiglia sempre più ad un processo creativo ed i significati inconsci oltre che essere svelati sono riprodotti sul palcoscenico analitico. Questo tipo di lavoro si prefissa di sviluppare la funzione rappresentazionale che attenua la spinta pulsionale all’azione a favore di una simbolizzazione dei fantasmi inconsci. Guarire si lega così alla possibilità di rappresentare uno stato affettivo attraverso un processo di simbolizzazione e sublimazione.
Sicuramente la mente ha bisogno di verità per crescere ma è anche vero che essa ha caratteristiche soggettive che non rendono possibile una generalizzazione, così spesso il fornire un contenimento affettivo a ciò che viene esperito solo in forma non rappresentabile diviene fondamentale. Infatti, nell’analisi, ci troviamo di fronte alla necessità di fare comunicazione su un’esperienza che è, per definizione, impossibile da tradurre pienamente in parole. Il contenitore, in quest’ottica, si struttura attraverso le sensazioni e le intuizioni della coppia analitica divenendo uno spazio potenziale enigmatico ed ambiguo che necessita di una continua azione trasformativa per permettere la traduzione di segnali in elementi riconoscibili e tollerabili. In questo senso Bion (1963) suggerisce che aggiungere una dimensione narrativa e metaforica a un’interpretazione è un input per la mente del paziente poiché il suo carattere ambiguo e disturbante costringe a ristrutturazioni e risoluzioni mentali.
Questa nuova forma dello stare insieme in seduta è bene espressa da Roussillon:
“ il lavoro di analisi deve tenere in considerazione le condizioni, attuali e preliminari, in base alle quali il significato può essere portato alla luce e diventare conscio. Il significato, quindi, non è più sempre lì, nascosto da qualche parte in un angolo dell’inconscio dell’analizzando. Esso verrà prodotto gradualmente all’interno del processo psicoanalitico stesso e con l’aiuto, spesso attivo, dell’analista. Il significato, dunque, non è tanto rivelato quanto prodotto; la capacità generativa associativa o simbolica sostituisce la ricerca della verità” (Roussillon, 2011,53).

Lo psicoanalista “partecipante”

La metafora dello specchio opaco, segno della radicale asimmetria tra analista e paziente, viene così sostituita dall’immagine di un analista meno neutrale e più partecipante, uno psicoanalista, che, sulla scia di una valorizzazione del controtransfert, può in certi casi “agire” all’interno del setting.
La fantasia inconscia attiva all’interno del campo non sarà solo quella dell’analizzando, ma quella della coppia, intesa tuttavia non come mera somma delle due parti, ma come struttura nuova: i Baranger la chiamano fantasia bipersonale (1961). Concetto che si può sovrapporre al terzo analitico di Ogden (1994).
Alla luce di queste premesse non sarà più possibile pensare all’insight analitico come personale e introspettiva comprensione della singola realtà psichica dell’analizzando, quanto piuttosto come un momento di ristrutturazione del campo bipersonale, cioè della coppia presente sulla scena analitica, attraverso la comprensione delle fantasie inconsce di paziente e analista insieme.
Dal campo bipersonale a quello intersoggettivo (o interpersonale che dir si voglia) il passo è breve ma non identico, infatti il campo intersoggettivo pone ancora maggiore enfasi all’hic et nunc (qui e ora).
In un articolo del 1994, Ogden scrisse: “Io ritengo che, in un contesto analitico, non esista una cosa come un analizzando indipendentemente dalla relazione con l’analista, così come non esiste una cosa come un analista al di là della relazione con l’analizzando”
(cit. in Ponsi, 1999, p. 155).
Secondo Gabbard, due sono state le concettualizzazioni teorico-tecniche che più di altre hanno portato al formarsi di nuovi paradigmi ora largamente accettati dalla maggior parte della comunità analitica: il controtransfert e l’identificazione proiettiva (Gabbard, 1995).
Il primo è inteso nell’accezione più ampia data da Racker che, in un articolo del 1953, riportato in un libro del 1968, scriveva: “Sembrerebbe che tra gli analisti il controtransfert venga trattato come un bambino di cui ci si vergogna. Ma questa ‘vergogna’, o, io direi piuttosto il pericolo che minaccia l’autostima dell’analista e la stima degli altri per lui nel dover concedere che anche egli, una persona che è stata analizzata e che analizza altre persone, continua ad essere nevrotico, altro non è se non un’espressione superficiale dei motivi della resistenza che si oppone a divenire consapevoli del controtransfert. Al di dietro di essa sono tutte le paure e le difese proprie della sua nevrosi, e la sua situazione professionale riveste soltanto di una nuova lingua i vecchi impulsi, immagini ed ansie” (Racker, 1968, p. 145-146).
La seconda, sviluppatasi soprattutto in Inghilterra, viene universalmente intesa nel significato esteso dato da Bion rispetto alla formulazione originaria della Klein, come comunicazione preverbale primitiva, tipica del neonato e del paziente grave, cui la madre o l’analista risponde nel processo di rêverie.
Si evince come il controtransfert divenga il centro della questione (è importante ricordare, per verità storica, che solamente dagli anni Cinquanta in poi, specie dopo il lavoro della Heimann del 1950, il controtransfert è stato considerato un importante strumento di lavoro dell’analista), a maggior ragione dopo la teorizzazione del concetto di enactment, che invece valorizza l’interazione anche agita tra analista e paziente. Nella definizione di enactment possiamo, a mio avviso, far rientrare anche quella di controtransfert.

La tecnica dell’autorivelarsi

Un passo ancora più avanti nelle innovazioni della tecnica si ha con il termine self-disclosure, che potrebbe essere tradotto in italiano con autorivelarsi. Esso descrive uno svelamento cosciente e deliberato, e non involontario o inconscio, da parte dell’analista di alcune parti di sé; in quest’ottica, la self-disclosure è un qualcosa dell’analista che concretizza nella pratica clinica il suo atteggiamento e il suo stile attivo e molto coinvolto nella relazione (Bromberg, 2006).
self disclosure (Bromberg, 2006).
Un altro punto di osservazione interessante per cogliere i cambiamenti suddetti riguarda l’evoluzione della clinica che ci ha portato gradualmente a preferire il concetto di dissociazione (Albasi, 2007) a quello di rimozione ( Freud, 1911).
La rimozione implica un trasferimento del rimosso nell’inconscio dinamico (secondo una lettura orizzontale dei contenuti mentali), mentre la dissociazione consiste in una separazione verticale, un isolamento degli stati dell’Io così che i contenuti mentali vengono a trovarsi in una serie di coscienze parallele (Lingiardi, Madeddu, 1994).
Bromberg (1998-2006-2011) è l’autore contemporaneo che ci da un quadro della dissociazione tra i più chiari:
“nel funzionamento sano vi è una dialettica continua tra stati multipli e separati del Sé, e la dissociazione si configura come una funzione normale e potenzialmente adattiva della mente umana” in quanto permette di mantenere un senso di integrazione e coerenza personale (Bromberg, 2006, p.2). È solo quando questa continuità, o l’illusione di essa, diventa troppo pericolosa per essere mantenuta, perché affetti e percezioni incompatibili travalicano la capacità di elaborazione simbolica del soggetto, e la discrepanza tra le esperienze è troppo ampia per essere tollerata, che entra in atto una dissociazione patologica a difesa della dissoluzione traumatica.

Esperienze dissociate

Queste esperienze dissociate non possono essere comunicate in modo verbale, ma spesso possono essere osservate nei pattern di comportamento all’interno delle relazioni interpersonali, così come all’interno della relazione terapeutica. Essi rappresenteranno la possibilità di rendere le dinamiche del passato “pensabili”, dal momento che nell’azione risiede una prima rappresentazione implicita e affettiva dell’evento, che potrà successivamente essere mediata dal linguaggio di entrambi, costituendo un primo passo verso la rappresentabilità (Bromberg 2011; Schore 2012).
Il terapeuta deve accettare di “esperire” gli stati traumatici del paziente, vivendoli momentaneamente allo scopo di fungere da “regolatore emotivo”; il clinico che mostra un atteggiamento rifiutante, si spaventa o si distacca da questi stati, non solo perde un passo fondamentale per raggiungere un cambiamento terapeuticamente significativo, ma rischia addirittura di perpetuare la situazione traumatizzante.
L’arco evolutivo sin qui tracciato ci porta così a sostenere con ragione di causa che il vero cambia-mento avviene attraverso una condivisione che permetta di scoprire altri possibili significati, e non attraverso una mera trasmissione di sapere.
Questo ragionamento nega che l’analisi si svolga nel tempo reale, un tempo che conta cronologicamente, e che il paziente faccia continuamente scelte reali sotto la nostra influenza suggestiva all’interno e al di fuori della situazione analitica (Hoffman, 1998); è una comune illusione salvifica che consente di essere fuori dal tempo prendendo tutto il tempo possibile. Non c’è nessuna fretta in psicoanalisi! ( Gill, 1997).
I significati altri debbono andare ricercati con il paziente, né prima e né dopo, in un mondo magico ove la metafora e la rêverie ci conducono a confrontarci con fate, gnomi e bestie feroci; un immenso spazio bianco immerso nel vuoto dove nessun peso può essere sostenuto, e dove il pensiero conflittuale possa emergere con l’aiuto del paradosso. Esso ci aiuterà ad integrare quegli stati del sé molto conflittuali tra loro (Mayer, 2007).