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Il paziente difficile

di Andreas Giannakoulas

In una disciplina terapeutica che cresce e si espande, è inevitabile che i confini teorici e la tecnica si allarghino, che più acuti divengano i nostri insight terapeutici, e più intenso il nostro coinvolgimento con il paziente difficile. 

Poiché l’esperienza clinica modifica e arricchisce la nostra teoria generale, è altrettanto inevitabile che emergano diverse tecniche e che i fattori curativi vengano valutati in maniere differenti.

Ho già fatto riferimento (Giannakoulas, 1990) all’uso dei modelli concettuali che si sono sviluppati recentemente, grazie ad alcuni autori, come esito del lavoro teorico e clinico con il paziente cosiddetto borderline. Nel presente lavoro mi soffermerò soprattutto su quelle parti della tecnica ove permangono in modo inequivocabile alcune differenze. Con il materiale clinico spero di contribuire a promuovere un fruttuoso scambio di punti di vista anche tra di noi qui stasera.Con il paziente borderline ho trovato utile da un lato curare e rinforzare il setting psicoanalitico classico (spazio, tempo, interpretazione), ma, dall’altro, adattarmi attivamente a certi aspetti dell’idioma personale di un cosi particolare paziente. 

Formalmente il “borderline” appare come un’entità clinica statica. Ma l’immobilità è solo apparente; all’interno di quel “permanere” si colgono delle impercettibili modificazioni che fanno pensare alla superficie dell’acqua su cui si riflette un’immagine. Talvolta questa si increspa lievemente e l’immagine scompare, trasformandosi lentamente in un confine impenetrabile con una struttura interna, una sorta di trama nebulosa.Dal momento che l’analista diventa soggettivamente significativo, il paziente sente di acquistare, per così dire, dei diritti su di lui, su quello che fa, pensa e sente; e nello stesso tempo si aspetta che l’analista debba sapere come si sente lui, come è il suo mondo interno e quello che si sta aspettando dall’analista stesso. E data l’intensità del transfert d’attesa e la qualità del transfert che si sviluppa rapidamente c’è un tentativo di creare una situazione idealizzata, fusiva, senza confini dell’Io e soprattutto senza diversità e differenze. Il paziente si sente non gratificato e frustrato ogni volta che l’analista tradisce le sue aspettative. La frustrazione, a questo livello, può portare rapidamente a delusione e rabbia, e insieme diventare una vera e propria minaccia per la motivazione e la fiducia di base necessaria all’alleanza terapeutica che si sta formando e che di solito, a questo stadio, non è ancora sufficientemente consolidata. In questo periodo, il pericolo dell’acting out è notoriamente elevato.Spesso il paziente cerca di liberarsi della presenza dell’analista dentro di sé, e forse il suo comportamento si può spiegare presumendo che secondo il paziente l’analista è dentro di lui e perciò dovrebbe capire, sapere, sentire ecc.Diventa chiaro che è difficile per il paziente accettare l’idea che l’analista possa esistere di per sé, cioè che esista al di fuori del suo pantheon interno, e che possa non comportarsi secondo le sue regole e al di fuori delle proprie aspettative. Questa esistenza indipendente è vissuta come un’offesa all’onnipotenza narcisistica ed un atto di ostruzionismo e ostilità, spesso proiettivamente vendicativa.

Con l’utilizzazione narcisistica e magica dell’oggetto c’è simultaneamente «una mancanza intrinseca ed una incapacità di questo paziente di mettere a fuoco emozionalmente e di mettersi in relazione contemporaneamente con un oggetto esterno ed intrapsichico. Questa difficoltà crea delle risposte di identificazioni complementari e corrispondenti nel controtransfert dell’analista» (Racker, 1968), che potrebbero interferire precocemente nell’andamento clinico che si sta strutturando. In questo caso il controtransfert riflette l’identificazione inconscia dell’analista con la rappresentazione del sé e dell’oggetto del paziente, scissa dissociata e proiettata. Sappiamo ormai come è irreale l’immagine dell’analista neutro, autosufficiente, che non lascia spazio alla propria soggettività, che funziona come uno specchio intatto che rimanda grandi panorami di esperienze umane.

In qualche misura noi siamo coinvolti anche con il nostro mondo interno, e il nostro stesso inconscio partecipa e risponde a quello che incontriamo nello spazio e nel tempo. Lo stile di un analista esperto, come si sa, sta nella “ratio” tra personale ed oggettivo, e, talvolta, nel soggettivo stanno le caratterizzazioni più sottili. Ogni autore creativo e dotato di insight ha sempre tenuto presente il proprio bisogno di includere metafore personali nei propri modelli, che suggeriscono una posizione teorica, cioè un sistema più o meno stabile di idee, che influenza ovviamente la predisposizione empatica e controtransferale, e che può insinuarsi come dogma nell’analista nel qui e adesso, per far sì che la propria struttura soggettiva, possa convertire il punto di vista personale in realtà clinica.Non di rado l’analista costruisce un monumento proiettivo di sé stesso, come un tempio della propria formazione teorica-clinica, che ha la solidità sottostante di un mito composto da un serie completa di genealogie analitiche.In questo senso il quadro clinico “Borderline” non è semplicemente una entità differenziata e ben definita, ma una sindrome con una sua propria vita, densità e tessitura; i suoi caratteristici aspetti vanno ridefiniti ex novo in ciascun paziente, e necessariamente comprendono le modalità con cui il carattere di questo paziente concepisce gli altri e il come gli altri fanno pressioni su di lui e lo influenzano.

Ciò che interessa di questo paziente nella seduta è questa zona grigia, nebulosa, informe (Bion) non il limite (come Border), ma un’area così indefinita e priva di ogni necessaria struttura, che ci invita e costringe a scivolare nella sua difficoltà, cercando di intuire, “annusare” i ritmi, le tipologie, le energie, le dinamiche interne come le presenze degli oggetti interni e il loro rapporto normale e patologico prevalentemente collusivo. Si tratta di aprirsi cautamente un varco verso il centro del sé per provare la sua forma e unità, sperando che a livelli più profondi potremmo trovare una unità pervadente ancora incerta. Il nucleo interno sacrificato, come lo definisce Winnicott, in cui il sé nascente si ritira e da cui non può subire né ulteriori danni né può avvantaggiarsi di alcuno scambio significativo con gli altri, come il vero sé, per un new beginning (Balint). In questo senso l’immagine evocata è spesso inevitabilmente quella del porcospino, il cui interno lentamente si mostra sotto il drammatico evolversi della seduta. 

Marion Milner scrive che “la seduta psicoanalitica è incorniciata sia dallo spazio che dal tempo”. L’autrice sottolinea che la cornice mostra che ciò che è dentro deve essere percepito, interpretato in modo diverso da ciò che è fuori; la cornice delimita un’area entro la quale ciò che percepiamo deve essere considerato un simbolo, una metafora, non deve essere preso alla lettera. È implicito il riferimento nell’hic et nunc e le concretizzazioni del paziente borderline.Se riusciamo ad afferrare il nostro coinvolgimento con il paziente nell’interazione del qui e adesso, possiamo avvertire la trama dell’area grigia, vasta e indefinita nella sua più ampia portata e, soprattutto, percepire come egli concepisce se stesso ed avverte la pressione degli altri su di lui; cioè il suo engagment con il proprio sé, e naturalmente con il transfert, sia nella sua versione di solitudine che nel rapporto diadico, triadico, ed in quello sociale cioè interno ed esterno.Nel processo analitico la presenza stessa dell’analista, l’essere visto, sentito o percepito spesso vengono vissuti dal paziente come un’intrusione ed interruzione della propria continuità. L’holding proiettivamente può essere sperimentato più come un assedio che un sostegno per l’intensità del desiderio e del bisogno proiettati massivamente.Perciò nel setting il negativismo di questo paziente si articola in modo spesso focale, fino ad arrivare talvolta a costituire una corazza totale; come se per esistere egli avesse bisogno di essere in possesso di una forza offensiva maggiore del potere d’intrusione altrui, di ciò che lui sente come un atteggiamento invadente sviluppato dall’altro. Allora penso che nel processo analitico i confini dell’Io debbano essere accuratamente rispettati e protetti dall’analista. 

Ma, cosa ancora peggiore, nei suoi incontri con altre persone più definite, il paziente si aggrappa alle aspettative, intenzioni e cambiamenti umorali di costoro, e nella sua variabile innocenza – simile alle stagioni, che seguono il tempo senza opporvisi – si identifica con gli aspetti patologici di questi, come se la patologia latente ed insidiosa degli altri divenisse il movente che può dargli forma.

Nel contesto del processo terapeutico, il paziente è impegnato nella rinuncia temporanea di confini e di un’identità separata e tenta di creare una falsa intimità. Riesce così anche ad afferrare gli aspetti meno elaborati e prevalentemente narcisistici dell’analista ed a creare con lui una complicità collusiva, e, per definizione patologica, sempre a scapito del processo analitico. 

Spesso il mondo oggettuale interno del paziente dà l’impressione di essere abitato più da statue che non da oggetti vivi, parziali, o morti. Ci troviamo così introdotti nell’illusione di un’azione vitale, ma senza nessun genuino coinvolgimento.

( per gentile concessione del mio amato maestro Andreas Giannakoulas, grazie)

 

 

 

Bibliografia

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