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Psicodinamica dell’attacco di panico
e implicazioni sociali

 

Il significato sotteso

Gli attacchi di panico possono assurgere a simbolo del disagio provocato da questo momento difficile di transizione che è attraversato da molti, nelle società tecnologiche e democratiche. Appaiono come l’esasperazione di un’affermazione disperata del nostro corpo-mente che reclama la sicurezza e la protezione in un’epoca dove domina l’insicurezza, e dove ci viene richiesto di assumerci la responsabilità in prima persona di tutto ciò che avviene, come se dovessimo diventare demiurghi onnipotenti o soccombere sotto il peso del fallimento (Ehrenberger,1999).

E’ la risposta sbagliata a un problema sbagliato, un doppio legame. Ci affanniamo a rispondere, mentre dovremmo respingere al mittente il dilemma paradossale. Il grido spaventato, rimasto soffocato per anni sotto montagne di rimozioni e di repressioni, esplode quando le vicende della vita ci obbligano a confrontarci, comunque, con l’ineluttabilità del cambiamento, con la fragilità della nostra esistenza, con l’apparente assurdità della morte, con il desiderio di continuare a vivere situazioni e vicende che devono essere superate e trascese e ci accorgiamo che la falsa idea di noi stessi e del mondo vacilla pericolosamente.

Il “collettivo”, società, cultura e religioni, nella loro generalità, sono, naturalmente, espressione della visione del mondo “media” dominante e anche delle visioni più regressive, quindi non solo non ci aiutano, ma anzi continuano ad alimentare il paradosso in modo da mantenere in piedi l’edificio sociale: farci consumare sempre di più, imporci modelli di vita stereotipati e conformistici o incrementare paure e sensi di colpa per prepararci meglio per un Aldilà mitologico.

Una medicina che non accetta la morte e la vive come una propria sconfitta, un utilizzo indiscriminato di psicofarmaci che ci conferma che alla nostra paura e alla nostra angoscia non ci sono vere soluzioni, un’economia che non è al servizio dell’umanità ma che mantiene miliardi di persone nella povertà e nella fame, una concezione dell’essere umano fondata sull’efficienza, l’eterna giovinezza, la bellezza che non deve sfiorire mai, l’immortalità se possibile, ed emargina vecchi, malati e sofferenti… che aiuto ci potranno mai dare (Ghezzani, 2006)?

. (Pozzetti, 2007).

A un certo punto, un evento della vita, forse neppure troppo traumatico, funziona da catalizzatore e appaiono i sintomi del disturbo: dolore al cuore, senso di soffocamento, vertigine, sudorazione, tachicardia, confusione mentale e una grande angoscia (Silber,1989).

L’attacco di panico ci dice che non possiamo andare avanti così, che si richiede una “revisione”, dobbiamo tornare a noi stessi e rifondare la nostra identità. Dobbiamo riscoprire che se non siamo onnipotenti, non siamo neanche impotenti, se non siamo perfetti abbiamo però qualità, talenti, capacità, che, se abbiamo limiti come esseri storici incarnati nello spazio-tempo, siamo anche in una relazione di inter-essere. Segnala anche in modo evidente che, a livello individuale come a livello collettivo, non è più possibile continuare con un modello “aggressivo”, tradizionalmente qualificato come maschile, che dissocia e reprime le “qualità” tradizionalmente considerate femminili.

La crisi delle stereotipate identità maschile e femminile e la crisi ecologica senza precedenti fanno emergere la necessità di rivalutare e reintrodurre attitudini come l’abbandono, la resa, la ricettività, l’accettazione, il sentimento, la sensibilità, l’apertura del cuore, la comunione, il prendersi cura degli altri e della natura, l’umiltà (che viene da humus, terra) che riconosce e rispetta le leggi dell’universo, contrapposta alla mancanza di misura e all’arroganza dell’eroe demiurgico, isolato e alienato dalle sue radici, da che si sente il padrone della natura e la distrugge (Gatti,Pertegato,1988).

Quella del panico è una crisi che fa da spartiacque, tale evento si verifica una sola volta ma il problema è l’atmosfera di rottura che essa crea; il tempo diventa frenato dal pensiero, in cui la ricerca ossessiva della sicurezza impedisce l’evoluzione dell’individuazione.

Il panico possiamo considerarlo come un’ esperienza paradigmatica dell’ombra del tempo presente: il tempo, da un lato, del controllo razionale e della pianificazione tecnica, dall’altro, in cui l’angoscia panica e la paura sono diventate fenomeno sociale (Pozzetti, 2007).

Suggestiva a questo proposito la tesi di J. Hillman che vede nel panico la possibile rivelazione del “Dio naturale”, nel senso che la diffusione oggi della psicopatologia del panico o, detta con il linguaggio della mitologia, il costellarsi epocale della figura di Pan, segnalerebbe in forma estrema o arcaicizzata il bisogno di un recupero della spontaneità naturale, specie nel campo della vita emozionale (Hillman,1977).

Molti soggetti, riferendosi all’esperienza del panico, dicono: “mi è capitata questa cosa.

La “cosa” non viene pressoché mai, spontaneamente, correlata alla propria personalità, alla propria storia di vita, al proprio modo di vivere le esperienze relazionali. C’è una sorta di pigrizia emotiva del tutto contrastante con la sfera cognitiva spesso capace di brillanti prestazioni.

La cultura del “collocamento” vuole circoscrivere difensivamente la tragedia in sintomo clinico (Rossi Monti,2000).

È qui in evidenza, detto in altro modo, la difficoltà ad accedere al simbolico che consente al sintomo di alludere ad un più globale senso del vivere; un esempio tipico è la paura di svenire, interpretabile in chiave simbolica come timore di fronte alla vita, come possibilità della caduta, quindi della miseria umana di fronte alla grandezza delle scelte o delle situazioni. Questa rappresentabilità manca nel soggetto che patisce il panico per cui la caduta è vissuta solo nella sua concretezza somatica, nel suo accadere fisico. Per dirla con Jung, qui il sintomo si chiude nella sua portata “segnica”, senza aprirsi ad una vera e propria dimensione “simbolica” (1921).

Lo smarrimento del simbolico è più in generale una caratteristica della cultura contemporanea, specie in ambito giovanile, ed è l’inevitabile implicazione del vivere il tempo come presente chiuso, privo di orizzonti o di ricordi interiorizzabili, che nel simbolo trovano invece la loro casa dove poter vivere insieme. Dopo la crisi acuta, quando l’Io si riprende, entra in scena la paura, la quale può essere collocata più sul registro psichico: paura d’impazzire oppure di avere una mente ovattata, non in grado di essere presente sintonicamente ed adeguatamente alla vita (Hurvich,2000). Oppure più sul registro somatico: paura di avere un infarto, o un ictus… fino alla cosiddetta morte improvvisa (Verhaege, Vanheule, De Rick, 2007).

Lo “stato di paura” di chi ha vissuto l’esperienza del panico sembra una sorta di protezione dall’angoscia del ritorno preferendo il restringimento degli orizzonti della libertà all’affacciarsi del mondo esterno del possibile, con il suo carico di imprevedibilità.

Paura e ansia (angoscia) non sono dinamicamente autoescludentisi. Ci può pertanto essere uno stato di paura-con-oggetto che subentra all’angoscia, ma sul quale può altrettanto innestarsi di nuovo l’angoscia. Pertanto si può passare dalla paura che blocca e invita alla fuga (evitamento) come nell’agorafobia o nella fobia sociale, all’angoscia inquieta, tormentosa e paralizzante (Fabbroni,2007).

L’individuo che patisce il panico non accetta la possibilità di soffrire, il male è qualcosa che “capita” devastando, che arriva da un altrove e modifica l’Io, non c’è identificazione ma neanche la possibilità di prenderne le distanze. Le esperienze infantili che si trovano spesso nella storia di vita dei pazienti che patiscono il panico, o meglio, nella riedizione che questi soggetti fanno della propria storia, che è sempre atto interpretativo più che cronaca oggettiva, sono tese alla significazione di una trama biografica che già di per se stessa contiene valenze terapeutiche (Battaglia, Bertella, Bajo, Binaghi, Bellodi, 1998).

Dopo la crisi di panico, quasi sempre, la funzione psichica del pensiero interviene nell’allestire dighe difensive. Nell’anticipo ansioso che caratterizza il dopo della crisi acuta, la ruminazione ossessiva cerca di costringere la previsione, di controllare il futuro nel tentativo di arginare l’ignoto (Faravelli,1985).

Il tentativo è in genere destinato all’insuccesso, perché la forza del divenire non si lascia mai interamente imbrigliare nel prevenire.

Anzi, più ci si accanisce nel prevedere, più non si riesce ad intravedere… e l’ansia cresce.

Il nuovo assetto psichico

Più che alla crisi acuta, sulla quale si incentra la psichiatria clinica dei recenti DSM che la codificano come “Attacco di panico” all’interno del più esteso “Disturbo di panico”, vorrei puntare l’attenzione sulle coordinate psicologiche del paziente che vive una tale esperienza critica, nel senso che ritengo esista un terreno preparatorio alla crisi e che questa lasci successivamente delle tracce visibili sul terreno dove essa è divampata (Tagliacozzo,1989).

La domanda che dobbiamo porci è la centralità che assurge il tema dell’attesa e del futuro vissuto come una minaccia per questi soggetti. Nelle fasi successive alla crisi acuta il tempo vissuto, quello soggettivo che non coincide con il tempo oggettivo dell’orologio, più che dalla dimensione del presente fine a se stesso è dunque caratterizzato dalla dimensione dell’attesa, spasmodica, del futuro. L’avvenire è cioè vissuto per il suo “venire verso di noi” (questa è la sostanza psicologica del sentimento dell’attesa) e non per il nostro tendervi e per il nostro costruirlo .

In questa asimmetria, l’avvenire giunge a manifestarsi con un’incombenza vissuta passivamente che ha il carattere dell’immediatezza, di fronte a cui l’attesa inevitabilmente si fa ansia, e diventando inquietudine comunica uno stato d’allarme che trascina con sé una generale iperattivazione, senza però consentire una direzione di fuga. E in un’atmosfera in cui il contesto esterno non riesce a produrre certezze, è la lingua primaria del corpo ad essere parlata, nei termini della irrequietezza e della tensione muscolare, della velocizzazione del cuore e dell’incertezza del respiro (Van der Kolk,1994).

Così questi pazienti, nel tentativo di liberarsi dalla morsa dell’attesa che impietosamente si fa ansia, quasi ossessivamente, rendono presente il futuro nell’anticipo; vi è, in buona sostanza, il tentativo di rendere noto l’ignoto, di oggettivare l’eventualità non conosciuta. È, in fondo, il tentativo inconsapevole di trasformare l’ansia indeterminata in paura determinata. Quest’ultima, a differenza dell’ansia, è dotata di confini, vede l’oggetto che inquieta e permette la fuga che nel disturbo di panico, quasi sempre, si concretizza nell’evitamento di situazioni o persone (Nemiah,1989). Per cui spesso si vive, accanto al tempo dell’anticipo, il tempo del rinvio, che evita il mettersi all’opera fino a quando non lo pretenda l’incombenza della necessità, di quello stato di costrizione che è antitetico alla libertà. Si verifica cioè nel panico un momento in cui il corpo si percepisce come vita al di fuori di qualsiasi rappresentazione, e quindi al di fuori di qualsiasi rappresentazione in grado di contenerla. Assistiamo al crollo di ogni difesa, l’impossibilità di tirarsi fuori da una vita a cui non è possibile pensare, da cui non è possibile prendere una distanza rappresentativa perché investe e travolge. Credo che questo possa darci il senso dell’”impotenza” freudiana ( Hilflosigkeit ): sentirsi invasi dalla pressione di una vita senza limiti e senza controllo (Freud,1922).

L’ansia si ripropone proprio là dove non si intravede una via di fuga dallo stato di paura, fuga cercata non solo rispetto al contenuto estremo della morte, ma anche ai più terreni problemi del quotidiano come possono essere un incontro, un impegno, o il doversi recare in una località non familiare, così l’ansia, alternata alla paura, si riaffaccia anche al di fuori delle crisi, ogni qualvolta gli oggetti della paura si fanno sfuggenti e non controllabili. Nel disperato tentativo di evitare tutto ciò, in questi soggetti si affaccia costantemente il bisogno della calma, della sosta, della quiete intesa come a-conflittualità, non c’è il farsi carico dell’angoscia che è sentita come intollerabile.

Nei soggetti panici manca soprattutto la fiducia in se stessi, del poter stare nel divenire senza svenire (una delle paure più diffuse nel disturbo di panico), senza perdere consistenza, che etimologicamente allude al possedere un fondamento (Focchi, 2004).

Uno stato limite: patologia del reale in assenza del simbolo

La grandezza di Freud sta proprio nel fatto che già all’epoca individuò nuove forme di svelamento del sintomo, appunto le nevrosi attuali, nuove forme che seguono il percorso personale del padre della psicoanalisi dall’intrapsichico all’intersoggettivo.

Il sintomo si relaziona con l’altro, anzi con la sua “mancanza”; la relazione d’oggetto diviene centrale ed i nuovi sintomi nevrotici si spingono al confine di quella che per Freud era considerata l’analizzabilità, si situano in una zona di frontiera dove, con coraggio, si possono accogliere quei fantasmi terrificanti che tanto possono svelare (Freud, 1925).

Il panico, nelle sue fasi di iperattivazione somatica e cerebrale, si situa proprio qui, in quel casellario moderno che va sotto il nome di disturbi di personalità borderline; quello del soggetto panico è un eterno fluttuare che va da disturbi ansioso-depressivi di stampo inconfutabilmente nevrotico a manifestazioni di euforia panica che avvicina molto il limite psicotico del soggetto borderline. Oscillano prepotentemente i meccanismi di difesa che passano dalla rimozione alla scissione, si dispiega inequivocabilmente la fragilità dell’io che fluttua da radicalizzazioni estreme a voli pindarici (Maleval,2000). La clinica psicoanalitica classica, quella che nasce con gli Studi sull’isteria (1892-95), è una clinica costruita sul valore metaforico del sintomo, in essa vi troviamo una logica metaforica, una sostituzione: il sintomo sostituisce qualcosa di rimosso dalla coscienza e che continua a sussistere nell’inconscio. Possiamo dire che una rappresentazione penosa, relativa soprattutto alla sessualità ed all’aggressività, finisce con il venire rimossa dal campo psichico e ritorna, nel corpo, sotto forma di una conversione somatica.

Questo meccanismo imperniato sulla dialettica rimozione-ritorno del rimosso si verificava più spesso in un’epoca storica e culturale quale era quella della società vittoriana in cui vi era conflitto fra le pulsioni e la civiltà. In quel contesto ambientale Freud si è trovato ad imparare dalle pazienti isteriche che ha avuto modo di prendere in cura e, ancor prima, dalla pratica clinica dei suoi maestri quali Charcot, in occasione del periodo di tirocinio all’Ospedale della Salpetrière, e di suoi collaboratori ed amici quali Breuer (Ellenberger, 1970). Fu questo l’insegnamento storico dell’isteria: il corpo diventa il teatro di una messa in scena significante, diventa un corpo che parla, che si costituisce come un vero e proprio discorso e attraverso il quale ciò che era stato esiliato (rimosso) può fare ritorno anche se in una forma simbolicamente cifrata (Freud, 1895). Per Freud infatti il sintomo tiene il posto di qualcos’altro ( è un “sostituto”), di qualcosa che ha subito l’esercizio della rimozione e che però ritorna secondo forme enigmatiche sconosciute al soggetto stesso. Nella clinica delle nevrosi, che è costruita sul concetto di sintomo come formazione dell’inconscio, il lavoro analitico decifra l’enigma incarnato nel sintomo. Dunque la sua condizione di possibilità è che vi sia un rapporto di omologia tra il sintomo e l’interpretazione.

Quando però, nel “Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi” (1964), Lacan introduce il concetto di “olofrase” a proposito delle psicosi e dei fenomeni psicosomatici, ci segnala implicitamente la possibilità dell’esistenza di un’altra clinica rispetto a quella delle nevrosi e della metafora. L’olofrase è infatti una figura retorica che, al contrario della metafora, non rappresenta nulla, non veicola nessun messaggio, ma segnala piuttosto il fallimento dell’azione rappresentativa della metafora. Un’olofrase è una parola-frase, una frase non scomponibile, congelata, pietrificata. Il soggetto resta incatenato all’Altro, fa uno con l’Altro. L’olofrase annulla la separazione tra il soggetto e l’Altro e l’intervallo che separa tra loro i significanti. In altri termini ciò che si incontra nei nuovi sintomi e, in particolare, nel disturbo panico è un difetto essenziale nella separazione, invece del sintomo e del suo valore metaforico c’è o la dipendenza dall’oggetto o un’identificazione senza dialettica, mortifera. Nel nostro caso,quindi, il soggetto panico si trova esposto a relazioni oggettuali minate da un’aggressività distruttiva di fondo, aggressività che è un effetto dell’impossibilità di accettare, senza contraccolpi negativi, una frustrazione e, di conseguenza, una deidealizzazione dell’oggetto amato (Focchi, 2006). Questa proiezione violenta verso il mondo esterno genera un suo ritorno fantasmatico nella forma di un’animazione persecutoria della realtà esterna, caratteristica importante della strutturazione psichica del soggetto panico.

L’ipotesi che qui intendo sostenere è che il panico, come nuova forma sintomatologica, è una patologia del reale in penuria di simbolico, ed è in questo che si avvicina ad una strutturazione di tipo borderline.

La strutturazione di personalità del soggetto panico si fonda proprio su questa crisi contemporanea del riferimento all’ordine simbolico e alla legge edipica che lo sostiene, rendendo così il panico sempre più associato alla dimensione dell’agire e sempre meno a quella della rimozione.

Nell’attacco di panico affiora il reale spogliato da ogni veste simbolica, reale che si sottrae alla dialettica che ne storicizza i sintomi e ne favorisce le trasformazioni. Il corpo diviene il teatro di una messa in scena significante, diventa un corpo che parla, che si costituisce come un vero e proprio discorso e attraverso il quale ciò che era stato esiliato, rimosso, può fare ritorno anche se in una forma simbolicamente cifrata. Il panico, in questo, è figlio della stretta unione dello psiche-soma. Il fenomeno psicosomatico non ha la natura simbolica del sintomo isterico, della conversione somatica propria del corpo isterico; non è un fenomeno simbolico perché implica il reale del corpo più che la sua disposizione espressiva.

Panico e Isteria: similitudini e differenze

Storicamente l’attacco isterico era il sintomo per eccellenza, esso veicolava tutta una serie di percorsi somatici dovuti alle conversioni di desideri repressi sul corpo.

Non entrando in contrapposizione con nessuna corrente di pensiero per ciò che concerne nuovi o vecchi sintomi, possiamo sicuramente riconoscere all’isteria una nuova collocazione contestuale, il mondo intorno si è stravolto rispetto a cento anni fa e quindi non ha senso continuare a parlare di quella isteria, poiché era circoscritta ad un ambiente completamente diverso (Maleval, 2000).

Oggi vi sono nuovi sintomi perché vi è una nuova società e oserei dire che vi è anche un nuovo sintomo isterico, irriconoscibile rispetto al precedente ma strutturato per il medesimo scopo. Negli ultimi decenni i clinici non hanno dato molto interesse all’isteria, per concentrarsi su patologie molto più arcaiche ed invalidanti. Così per esempio, da un punto di vista psichiatrico, un testo cruciale come il DSM-IV non riserva più molto spazio a tale problematica relegandola nel disturbo istrionico o somatico e privandola, quindi, della sua funzione di interrogazione soggettiva e di funzione strutturante di discorso che ruota intorno alla specifica insoddisfazione del desiderio (Compton, 1992). Anche da un punto di vista psicoanalitico l’interesse nei confronti dell’isteria è andato man mano scemando, peccato mortale proprio perché la psicoanalisi è nata con essa (Ellenberger, 1970).

Tuttavia la pratica clinica con i soggetti DAP dimostra come alcuni di questi fenomeni si ritrovino di frequente negli attacchi di panico specialmente in coloro che pongono in risalto il corpo come luogo investito dalla crisi. L’implicazione del corpo e della sua fragilità narcisistica nella sofferenza legata al panico, la divisione soggettiva tra ciò che è desiderato e quanto risulta realizzabile, la tendenza a mantenere il proprio desiderio inappagato sembrano tratti tipici della persona sofferente a causa del panico e costituiscono gli aspetti più classici della struttura isterica (Van der Kolk, 1994). Il sintomo isterico funziona secondo una logica di conversione e, cioè, una rappresentazione psichica intollerabile cade sotto la rimozione e viene convertita in un sintomo (Breuer, Freud, 1886-1895). In effetti tale rappresentazione penosa sussiste intatta nell’inconscio e ritorna nel corpo nella forma di una metafora sintomatica che può venire risolta riconducendo il discorso del corpo al linguaggio originale delle parole (Lacan, 1953).

Nel panico il corpo entra drammaticamente in gioco sia pure in una forma poco localizzata in un sintomo forte e piuttosto inerente ad una perdita di controllo generale delle funzionalità fisiche.

La drammatizzazione del panico, la labile distinzione tra fantasia e realtà ricordano gli elementi dinamici dell’isteria, e tuttavia, liquidare i sintomi panici come banali simulazioni isteriche non risolve i casi clinici, Freud capì ben presto come l’inconscio tenda ad esprimere una verità sotto forma di finzione, non si tratta di un inganno dell’io, di una menzogna consapevole ma di un prodotto delle formazioni dell’inconscio che attingono ad un elemento realmente avvenuto nell’infanzia per elaborarlo costruendo un ricordo arricchito dall’immaginazione e dalla fantasia (Freud, 1909).

Per questo, ad esempio, risulta superfluo cercare di persuadere il soggetto panico del fatto che una tachicardia accentuata o delle difficoltà di respirazione non comportano affatto l’imminenza di un infarto oppure che la perdita di controllo intrinseca allo svenimento e l’emergere di pensieri bizzarri o il manifestarsi di lievi turbe della percezione non implicano sempre una degenerazione inerente alla pazzia. Queste affermazioni angosciate vanno piuttosto intese come l’espressione di una verità d’altra sorta, come fenomeni relativi ad un’amplificazione dell’immaginario che è bene lasciare dispiegarsi fino al punto in cui diviene possibile simbolizzarlo mediante una o più interpretazioni pertinenti.

Nella teatralità del soggetto in occasione delle crisi di panico si riscontra la seduttività isterica volta a suscitare le attenzioni delle persone care, a mobilitare amici e parenti stretti affinché giungano a prendersi cura di lui. Osservando le modalità con le quali viene descritta la dinamica del panico si ha l’impressione di assistere ogni volta alla ripetizione drammatica di una scena sostanzialmente identica e questo lascia intravedere gli scenari fantasmatici del soggetto, appiglio per una possibile cura. Il soggetto potrà, cioè, identificarsi con una serie di figure fra cui la madre, il padre, il fratello o la sorella mettendo in scena in ogni fase la sua identificazione inconscia del momento con i vari personaggi della sua storia (Marinelli, Palusci, Di Genova, Stratta, Aniello, Rossi, 2005).

Tale seduttività diviene palese nelle contraddizioni e nei contrasti che rendono talvolta sconcertanti i comportamenti dei soggetti panici: eccoli sensuali e freddi, violenti e calorosi, intriganti e puerili, svuotati e vitali. La pratica clinica con persone che soffrono di attacchi di panico mostra come si tratti piuttosto spesso di un’espressione degli affetti esacerbata, connotata di solito da un tono di esagerazione, di smodata emotività che assegna il primato al gesto piuttosto che all’azione, alla tendenza anziché alla realizzazione, all’espressività intenzionale e non alla decisione (Ghezzani, 2008). In effetti il panico determina l’instaurarsi di una serie di condotte di evitamento che riportano in luce le caratteristiche di compromesso del sintomo nevrotico classico.

Nella cura analitica, dal punto di vista lacaniano, bisognerebbe tradurre il linguaggio del corpo nel linguaggio originale delle parole (Lacan, 1964), perciò il tipo di disturbo così come la scelta degli organi coinvolti nell’attacco di panico paiono determinati dalla capacità di questi di esprimere al meglio in termini simbolici un’esigenza inconscia.

Ad esempio, tramite organi come la bocca e l’apparato respiratorio, può venire manifestata una tendenza incorporativa; dunque l’impressione di soffocare, caratteristica di un violento attacco di panico, può voler dire che il soggetto si sente soffocare in un certo tipo di relazione oppure la paura di non riuscire a deglutire il cibo può stare a significare un conflitto fra il desiderio di incorporare qualcosa e quello di rifiutare (Hautmann, 1990). Mediante organi concavi, atti a rappresentare la possibilità di accogliere, possono venire espressi desideri sessuali femminili; il timore di non riuscire a contenere qualcosa nella pancia sta ad indicare, ad esempio, una dialettica circa la capacità di essere madre (Zanardi, 2001). In questi termini, il panico, con le sue manifestazioni spiacevoli e dolorose al livello del corpo, può rappresentare la sostituzione attraverso il sintomo di un desiderio sessuale intollerabile oppure di una tendenza aggressiva inconsapevole.

La costruzione di un sintomo più classicamente isterico tende a condensare il godimento del soggetto, a catalizzarne tutte le preoccupazioni liberandolo dal panico generalizzato; ad esempio vi sono casi di giovani con crisi di panico che giungono via via a costruire un sintomo più strutturato localizzando maggiormente alcune paure e timori tanto da non riconoscersi più nella sindrome da attacchi di panico (Nemiah, 1989).

Quando, invece, si riscontra uno scacco nell’elaborazione di un genuino sintomo di conversione si assiste alla dimensione del panico nella sua forma più estesa e spesso soverchiante che, se può ancora rientrare nell’ambito del discorso isterico, prende appunto la caratteristica dell’attacco.

Il compito dell’analista sarebbe quello di mettere in correlazione la drammaticità dell’attacco di panico con il caratteristico attacco isterico (Blechner, 2007).

Le manifestazioni dei sintomi di conversione isterica che si possono rintracciare in certi casi di crisi di panico possono essere annoverabili nell’ambito di quella che veniva una volta chiamata petite hystèrie le cui sindromi si presentavano con disturbi eminentemente somatici come quelli del panico giunto ad irrompere nel corpo (Chemama, Vandermersch, 1998).

Tuttavia una buona parte dei casi di Disturbo da Attacchi di Panico mostrano qualcosa che tende ad eccedere rispetto alla piccola isteria classica soprattutto in quanto le crisi di panico possono giungere ad introdurre significati diversi rispetto a quelli strettamenti legati alla sostituzione. D’altronde si registra nella pratica clinica come il sintomo di conversione classica tenda da tempo a scomparire in favore di indecifrabili percorsi nei fenomeni psicosomatici, di sottili e molteplici meccanismi fobici e, soprattutto, in ragione del pullulare contemporaneo dell’esperienza dell’angoscia.

La logica dell’attacco di panico risulta maggiormente comprensibile se si tiene conto della differenza, sempre considerata nella storia della psicoanalisi, fra il sintomo isterico e l’attacco isterico; il soggetto può giungere a strutturare dei sintomi ben definiti nei termini di conversione somatica canalizzati in precise paure fobiche; ma può anche, al contrario, manifestare degli attacchi isterici, ed abbiamo il nostro esempio principe nell’attacco di panico (Galimberti, 1990).

Il timore di uscire di casa, l’esigenza di venire accompagnati da una persona cara, lo svenimento dinanzi allo sguardo altrui non possono sempre venire situati nel campo della diagnosi psicotica; infatti, anche se il panico si presenta come un disturbo legato al corpo, dimostra, diverse volte, come l’isteria grave non possa ricondursi esclusivamente alla logica della conversione di una rappresentazione psichica in un sintomo. Il verificare la progressiva difficoltà ad inserirsi in tutta una serie di contesti di relazione a causa dell’ansia crescente determina talvolta un tale estendersi dell’agorafobia da rendere faticoso ogni spostamento. Il desiderio di relazioni interpersonali e sessuali può permanere, soprattutto nella fantasia, ma il concretizzare questo desiderio con l’azione provoca un panico molto intenso, per questo ne scaturisce una marcata tendenza all’evitamento delle situazioni sociali. Questa posizione isterica, anch’essa molto comune, risulta essere maggiormente provocatoria, in quanto insita in atteggiamenti volti a scavare la mancanza dell’Altro, piuttosto che un’isteria panica caratterizzata dalla ricerca continua di vitalità.

In questo secondo caso, il soggetto panico si mostra per la sua necessità di mantenere vivo il desiderio; in questi termini risulta abbastanza chiaro come l’attacco di panico possa insorgere proprio in momenti di apparente serenità, in frangenti di benessere come modalità isterica di rilanciare il desiderio attraverso delle manifestazioni eclatanti che conducono il soggetto a fermarsi, a rallentare ed a sottrarsi all’esperienza del godimento (Busch, Shear, Cooper, 1995).

Tra i fondamentali meccanismi di difesa sia dell’isteria che del panico, un posto di rilievo va assegnato all’identificazione.

Il soggetto isterico soffre per la sua tendenziale mancanza di identità, per la mancanza di un elemento che dia consistenza al suo essere, per non riuscire a strutturare una base solida sulla quale far crescere il proprio processo individuativo; si può aggrappare allora a qualunque tratto illusoriamente in grado di fornirgli questa consistenza (Pavan, 2002). La dimensione dell’identificazione si ritrova molte volte anche nei soggetti panici con struttura isterica i quali, oltre a conformarsi ad un ideale identificatorio, possono giungere abbastanza facilmente ad associare alcuni fenomeni delle loro crisi a peculiarità caratteristiche dei loro genitori, dei loro fratelli o di loro amici o conoscenti. Importante mi sembra la distinzione fra l’identificazione nevrotica e l’imitazione psicotica (Pozzetti, 2007).

Nelle psicosi si constatano processi fondamentalmente imitativi in cui il soggetto psicotico trova una guida per la propria vita, per le proprie scelte e decisioni sulla scorta di quanto vede fare agli altri. Molti soggetti con struttura psicotica descrivono in modo ricorrente il loro operare in modo imitativo, il loro riferirsi alle azioni degli altri, la loro esigenza di seguire costantemente un modello di riferimento. L’imitazione realizza magicamente l’unione con l’altro, la non separazione a scapito del senso di realtà e dell’integrità soggettiva; in essa rimane in gioco una certa non distinzione dall’Altro, un’adesività estrema alle condotte altrui.

Strutturalmente diversa risulta la dimensione dell’identificazione che, in modo distinto dall’imitazione psicotica, non si basa soltanto su di una logica speculare, vi entra in gioco una triangolazione che richiama la logica della triangolazione edipica.

L’identificazione isterica presuppone una logica di desiderio là dove la persona con la quale ci si identifica racchiude delle caratteristiche ambite, anelate dal soggetto. Essa non è mai totale ma sempre parziale, relativa ad un preciso tratto classicamente inerente al desiderio.

I nuovi sintomi non sono certo riconducibili ogni volta alla nevrosi ma, tuttavia, dimostrano spesso la tendenza isterica ad identificarsi con posizioni cliniche ampiamente diffuse in una sorta di contagio psichico. Per esprimere la propria domanda d’amore, il soggetto isterico può trovare inconsciamente appropriato adeguarsi alle posizioni soggettive altrui visto che, per costoro, si mobilitano forze sociali, ambientali e familiari; allo stersso modo gli attacchi di panico sono particolarmente pertinenti come punto di identificazione per suscitare una mancanza nell’Altro. Le crisi di panico costituiscono così un fenomeno funzionale a mettere in scacco colui che, in un dato momento, rappresenta l’Altro per il soggetto (Focchi, 2006).

Non vi è panico senza l’altro: un disturbo interpersonale

La dimensione relazionale risulta sempre fondamentale nel soggetto colpito dagli attacchi di panico. Non a caso il panico emerge quasi sempre, almeno le prime volte, in contesti di aggregazione oppure nella solitudine dinanzi alla separazione da un legame significativo. Per ciò, in questi soggetti, risulta essenziale studiare le modalità delle relazioni sociali .

Uno stile relazionale caratteristico è quello dell’appello agli altri, della ricerca del legame affettivo, della tendenza a mantenere un contatto costante con gli altri e, soprattutto, con le persone care (Anisfeld, 2000). Questi tratti di estroversione e di espansività tradiscono spesso una difficoltà a tollerare la separazione e la solitudine, una fatica nel raggiungimento di una certa autonomia, soprattutto dal nucleo familiare. A volte queste persone giungono alla crisi di panico proprio in frangenti di apparente benessere, quando sembrano poter compiere un passaggio importante come quello della convivenza o del matrimonio. E di frequente, fratelli o sorelle maggiori, hanno vissuto problematiche importanti in una fase analoga del ciclo di vita (Infrasca, 2006). E’ come se vi fosse una difficoltà nella famiglia d’origine ad accettare il distacco dei figli e la loro dipendenza.

I pazienti di questo genere tendono a ripiegare temporaneamente sui legami più solidi; tornano verso la famiglia di origine,si dedicano maggiormente al rapporto di coppia, magari insoddisfacente ma comunque rassicurante, si appoggiano agli amici più intimi ed affidabili; a loro confidano le proprie ansie e le loro paure ed in loro trovano il sostegno indispensabile per procedere verso una nuova autonomia (Fava, 1996).

L’irrompere del panico nell’economia psichica avviene in luoghi affollati, in momenti di stress lavorativo e personale, conseguentemente determina spesso l’evitamento ricorrente di contesti nei quali vi è un’elevata concentrazione di persone ed una ricerca di ambiti relazionali maggiormente familiari e rassicuranti.

Una sensibile svolta quanto alle logiche della dimensione relazionale viene compiuta da Freud, la sua descrizione pessimistica sul disagio della civiltà di cui si pregna lo scritto omonimo ( Il disagio della civiltà, 1925 ) può essere considerata allo stato attuale delle cose un’analisi preveggente di quella che è la struttura sociale dell’epoca moderna, una struttura minacciata da più fronti dalla sofferenza, un humus dove il panico trova la sua ideale collocazione.

Ciò che più ci espone al rischio della sofferenza è proprio la relazione interpersonale, per questo lo sforzo di lenire il dolore e l’angoscia passa attraverso l’isolamento sociale, la ricerca della quiete, il sottrarsi agli scambi sociali intollerabili e all’infelicità nella civiltà.

Freud, nel 1925, scriveva che la volontaria solitudine, il distanziarsi dagli altri sono il riparo più immediato contro il tormento che possono arrecarci le relazioni con altri uomini.

Quella panica è una solitudine a doppia mandata, infatti a quella dovuta all’inconsistenza dei legami con gli altri e al conseguente prevalere di una posizione solitaria, si aggiunge l’inquietudine dello stare da solo con la paura annessa dell’attacco panico. Lo definirei un cerchio a feedback negativo che si può spezzare solamente stando a contatto con la propria angoscia di morte derivante dal sentirsi solo (Recalcati, 2002).

A questo punto, occorre indagare più approfonditamente il rapporto del soggetto panico con l’Altro, con l’esterno, e per far ciò è d’obbligo esplorare ancora una volta la funzione paterna, così importante e così carente nelle persone che soffrono di panico. La famiglia, in ambito psicoanalitico, così come negli studi di storia e antropologia, non è mai riducibile ad una unità naturale, dove avviene cioè soltanto la riproduzione biologica degli individui, ma è il luogo dove un soggetto incontra il proprio destino, nel bene e nel male (De Masi, 2002).

L’essere umano non è il frutto di una causa biologica, si configura semmai come l’effetto di due cause o, meglio, del rapporto tra quelle due cause che sono il padre e la madre. Il bambino è il frutto del legame che unisce i due genitori. Ciò che ereditiamo non è solo un patrimonio genetico, ma anche la declinazione particolare con cui la parola del padre viene accolta dalla madre, ossia il posto che ha riservato alla funzione paterna (Marinelli, Palusci, Di Genova, Aniello, Stratta, Rossi, 2005).

Essa apre al soggetto panico la dimensione particolare del desiderio e, come abbiamo già visto precedentemente, consente quel passaggio fondamentale dal bisogno al desiderio. Nella clinica di ogni soggetto possiamo cogliere quello che è accaduto alla funzione paterna, come il soggetto ha interpretato quel legame tra la causa del desiderio e il padre, e come egli stesso vi si è situato.

Questa funzione nell’insegnamento di Jacques Lacan viene definita il Nome-del-Padre, un operatore psichico che consente al soggetto di accedere alla funzione simbolica, alla possibilità cioè di dare un senso all’esperienza.

Lacan (1956-1957) distingue “tre tempi”, ossia tre scansioni logiche che si svolgono in una certa successione cronologica. In un primo tempo, in una fase precoce dello sviluppo, il bambino sente di essere tutto per la madre, ciò che l’appaga completamente. L’entrata in scena del Nome-del-Padre segna la separazione della coppia madre-bambino, instaurando il passaggio da questa dialettica immaginaria al secondo tempo dell’Edipo: quello dell’interdizione paterna. La funzione paterna opera una duplice manovra d’interdizione (castrazione simbolica), rivolgendosi sia al bambino che alla madre: quest’ultima non può più soddisfarsi completamente nel bambino, che a sua volta viene sganciato dall’identificazione fallica (Lacan, 1964).

La legge veicolata dal Nome-del-Padre non è però soltanto un’interdizione del godimento, infatti il tramonto dell’Edipo apre al bambino una dimensione che sta al di là del sacrificio del suo godimento. In questa terza fase, definita da Lacan la tappa “feconda”, la funzione del padre consiste nel fornire al soggetto un modello in cui identificarsi, ma questa volta su un piano simbolico. Il padre risarcisce il sacrificio pulsionale del bambino con un dono simbolico: un ideale che struttura nel soggetto l’annodamento tra legge e desiderio. Freud indicava con questo concetto l’“Ideale dell’Io”(1905). L’intervento del Nome-del-Padre è dunque necessario affinché il soggetto trovi posto in un apparato simbolico. Questo è il carattere duplice della funzione paterna dal punto di vista della legge: da una parte l’interdizione e dall’altra, l’abilitazione al desiderio.

E il desiderio è desiderio dell’Altro da noi, sosteneva Lacan. Questo passaggio è fondamentale perché implica il riconoscimento dell’altro da noi piuttosto che noi nell’altro, è differenziare la croce pesante che si porta il soggetto panico di dipendere dagli altri per bisogno, e avere il desiderio dell’altro da noi su di un piano di individuazione sinergica. E l’Altro si sa, è il rappresentante del contesto sociale, i labirinti delle vicissitudini sintomatiche ci indicano infatti le modalità particolari con cui un soggetto si inserisce nel legame sociale.

Ecco perché l’ambito degli interventi psicoterapeutici, sebbene sia confinato alle stanze di consultazione, si apre non solo sui fenomeni psicopatologici, ma anche sulla loro intersezione con il discorso sociale dominante (Ramaioli, Cosenza, Bossola, 2003).

Questa tesi è in sintonia con quanto pensava Freud (1922), per il quale il mentale è sempre già sociale. In questa prospettiva potremmo azzardare a dire che la cultura rappresenta la dimensione sociale degli eventi psichici e la soggettività individuale rivela a sua volta la dimensione psichica degli eventi sociali e ambientali.

Il Nome-del-Padre indica dunque quell’annodamento unico e irripetibile tra soggetto e Altro, crea un rapporto tra la vita psichica individuale e la dimensione sociale e gruppale del soggetto.

Nel periodo storico in cui Freud scopriva e inventava la psicoanalisi il desiderio inconscio si manifestava come una irriducibile spinta al soddisfacimento.Tutto questo era la fonte di quel disagio che poneva in conflitto soggetto e civiltà: affinché il soggetto potesse partecipare alla condivisione di valori comuni doveva rinunciare a una parte del suo godimento. La funzione d’interdizione che attraversava il complesso d’Edipo era in sintonia con le esigenze normative del legame sociale (Freud, 1929).

Possiamo senz’altro affermare che nella contemporaneità il rapporto con l’Altro è segnato dal declino della funziona paterna, declino che lascia il soggetto privo di riferimenti simbolici.

Così i nuovi sintomi, di cui il panico è fulcro e base per molti, poggiano su questo altro-Padre così lontano ma così invischiante, con il contesto tutto che dà direttive a questo Io fragile che viene scisso e mosso senza possibilità di affrancamento e autonomia psichica. Il tramonto della funzione (edipicamente) strutturante dell’Ideale ha lasciato il posto ad un imperativo che impone una spinta all’eccesso. Nell’epoca contemporanea l’unico Ideale è infatti quello (anti-ideale), cinico, della spinta a godere. Tra Freud e noi passa lo spartiacque di un mutamento socio-culturale che ha visto la trasformazione del messaggio delle istanze sociali: dall’interdetto rivolto al desiderio si è passati ad un invito a godere in modo sempre più compulsivo (Miller, 1999).

L’Ideale ha cioè perso valore rispetto al godimento che incoraggiando un consumo sempre più eclatante illude le masse ad un consumo infinito nel rimando da un oggetto all’altro. Se il valore simbolico degli Ideali non organizza più lo stile di vita del soggetto, assistiamo allora a una deriva soggettiva in cui il percorso esistenziale di ciascuno è ridotto a una modalità di consumo della vita.

I sintomi, che a inizio del XX secolo portavano le persone a chiedere una consultazione, erano la forma metaforica di un desiderio inaccettabile per le istanze etiche del contesto, i classici sintomi nevrotici rappresentano infatti una deriva rispetto all’identificazione al ruolo sociale (Freud, 1886-1895), Nell’epoca contemporanea l’imperativo sociale non è più quello della rinuncia al soddisfacimento, poiché si è trasformato in un obbligo al non dover rinunciare, una spinta al “tunnel del divertimento”: il godimento non è più una scelta ma una via obbligata a cui doversi uniformare.

Questo segna ad esempio il passaggio dalla repressione del sesso alla sua prescrizione, che potremmo sintetizzare con una battuta: “una volta alle donne era permesso di raggiungere l’orgasmo ma dovevano fingere di non averlo, oggi debbono fingere di averlo anche se non riescono a raggiungerlo” (Focchi, 2004).

Da un’altra angolatura possiamo osservare come il declino del Nome-del-Padre e la conseguente instabilità del legame con gli Ideali favorisca un funzionamento sociale che incoraggia sempre più le personalità narcisistiche: “è sempre più difficile, in assenza di ideali comuni, che ci si interessi del proprio vicino e quindi in effetti ci sono più personalità narcisistiche e ciò modifica la clinica” (Laurent,1997).

Nella clinica contemporanea diventa prevalente l’utilizzo ipertrofico della maschera, del “falso sé” per dirla con Winnicott. Il soggetto panico attraverso la maschera esprime una difficoltà nell’identificazione che non lascia posto a un’apertura verso l’altro. Il suo sintomo odierno è l’ipertrofia dell’Io, originata da un narcisismo di rimando che esclude la possibilità di un rapporto dialettico tra il proprio desiderio e l’Altro: non c’è alcuno spazio simbolico per la dimensione particolare del desiderio. L’attacco di panico non è più la metafora di un significato rimosso, ma rappresenta sempre più la spinta ad agire, scavalcando la mediazione del simbolo. Per di più i nuovi paradigmi clinici hanno smesso di rappresentare la discrepanza tra il desiderio soggettivo e le richieste della società, i nuovi sintomi panici sono semmai l’indice di un eccesso di conformazione alle norme sociali del soggetto, un’impossibilità nel dire di no al messaggio dell’Altro contemporaneo.

Una formazione di compromesso

Ogni sintomo psicopatologico è l’espressione più o meno conscia di un argine repressivo.

Come è noto il Super-io è quella parte della personalità che pone in essere i sistemi di valori, i quali sono presenti nel mondo storico-sociale oggettivo e sono individuabili dall’analisi sociologica, storica, filosofica e psicologica e, per alcuni aspetti, anche dal semplice senso comune (Freud, 1922). Cercando di capire quale sia il funzionamento dei valori nelle esperienze psicopatologiche, scopriamo che la condanna posta in essere dai sintomi non è altro che la manifestazione psichica inconscia della condanna giuridica, dell’esecrazione morale o del vecchio ma pur sempre vigoroso

timor di Dio”. Poiché una parte di noi desidera che i valori in cui crediamo compiano il loro lavoro e completino il loro corso, il sentimento di fatalità con cui si vivono le crisi di panico, l’ineluttabilità che l’accompagna, deriva dalla nostra stessa stringente necessità morale che la condanna giunga ad effetto. Siamo noi a trasgredire (il nostro io); ma siamo ancora noi (il nostro super-io) a voler essere puniti o fermati prima di realizzare la grande colpa: l’odio nei confronti dei beni amati e dell’autorità per noi suprema (Recalcati, 2002).

La colpa per il soggetto panico è l’odio, riferito sia alla relazione affettiva, con la connessa ribellione anaffettiva, sia alla relazione sociale; la prima forma di odio deriva da un eccesso nella dedizione sacrificale, mentre la seconda deriva da un eccesso nell’ipocrisia e nel servilismo sociale.

Spesso, come abbiamo già visto in questo excursus sul panico, il disagio psichico è l’effetto della lunga consuetudine ad accondiscendere ad aspettative altrui: il soggetto panico ha talmente bisogno dell’altro che accondiscende l’altro per compiacenza, per provare piacere solo in subordine alle necessità di un altro. A seconda che si manifesti in relazioni private o pubbliche, la compiacenza si manifesta con due diverse attitudini: il sacrificio e il servilismo. La dinamica del sacrificio, nell’ottica panica, implica la disponibilità a reprimere le parti di noi che avvertiamo dannose per l’altro e ad assoggettarle al suo bene. La nostra qualità emergente è allora la sincerità, e se questa coercizione al bene talvolta immalinconisce, allo stesso tempo, per questo “sacrificio puro”, esalta.

Il servilismo, viceversa, è una strategia che mentre impone al soggetto la messa in scena di atteggiamenti positivi, allo stesso tempo lo porta a celare il desiderio rivendicativo di trarre dal proprio comportamento il massimo vantaggio, accompagnandolo con il piacere dell’inganno; nonché di vendicarsi dell’amato/odiato Altro, sottomettendolo, facendolo soffrire.

Come vediamo c’è tutta l’oscillazione patologica della personalità panica tra il bisogno dell’altro e l’ansia dell’abbandono da una parte, e la rabbia nei confronti dell’altro perché non riesce a dargli quel contenimento affettivo così importante per lui e la conseguente ansia del legame (Feld, 2004).

Nel servilismo, pertanto, prevale l’insincerità e l’ipocrisia. Anche l’individuo servile inibisce quelle parti di sé che ritiene dannose per l’altro e le assoggetta ai fini di quello; ma, a differenza dell’individuo sacrificale, egli vive ripetutamente su due registri opposti: mentre con l’atteggiamento esteriore è compiacente, all’interno della sua anima egli alberga rabbia e odio coscienti.In tutte e due le relazioni, la personalità è divisa in due, scissa com’è fra un Io esteriore compiacente e un Io interiore saturo di sofferenza e di, più o meno, consapevoli sentimenti di ribellione.

La personalità panica, influenzata com’è da qualsiasi vento sopraggiunga dall’esterno, sente la pressione della ricerca della propria libertà derivante da un modello individuale scaturito però da un incipit sociale; contemporaneamente, però, si pone come paladino della giustizia e della solidarietà.

Questo sia per l’approvazione di quella parte di società caritatevole, sia per avere sensazioni personali di bontà ( abbiamo visto come la rabbia e l’aggressività lo facciano sentire “cattivo” nei confronti dell’altro), propendendo per l’accudimento dell’altro poiché si è impossibilitati psicologicamente al proprio (Hurvich, 2000).

Questi soggetti, non avendo avuto quel contenimento affettivo che li abbia raccordati con l’esplorazione del mondo esterno, usano la compiacenza come mezzo di affrancamento e di riconoscimento sociale. Essi svelano il volto di una contemporaneità che rifiuta il confronto con il male, posizionandosi ora sulla pretesa di eliminarlo, ora sulla tentazione di padroneggiarne le direzioni; ma ne svelano altresì l’ombra di quell’impotenza nascosta dietro all’onnipotenza.

I valori della dignità e della libertà individuali associati a quello dispotico e funesto del successo a tutti i costi ha riportato in auge il sentimento della vergogna sociale a scapito del sentimento di colpa. In questo nuovo sistema di valori, cioè l’individualismo competitivo che invade il sistema di valori tradizionali del cooperativismo di gruppo, l’individuo è costantemente sotto il fuoco di un occhio sociale che lo stigmatizza come debole se non è all’altezza di standard sociali minimi: efficacia e competenza sul lavoro, disinvoltura e strumentalizzazione nei rapporti affettivi e sociali .

Si tratta della versione moderna dell’hobbesiano bellum omnium contra omnes, l’autodistruzione del genere umano, la guerra di tutti contro tutti.

Questa visione del mondo produce nell’individuo con personalità panica, continue ed elevate differenze di potenziale, ossia scarti tra ciò che l’individuo è e quello che dovrebbe essere; nondimeno, nella misura in cui spinge l’individuo a liberarsi dai legami affettivi e dallo stato di quiete fornito dalla cooperazione, questo nuovo modello sociale fa risuonare nell’animo della persona sentimenti apocalittici che si pensavano tramontati (Krimendahl, Bucholz, 1993).

Assediati da crescenti doveri di adeguatezza sociale, che allontanano di continuo il traguardo da raggiungere, molti vivono la fantasia di liberarsi del tutto e in modo definitivo della società: o nella forma dell’eliminazione degli altri o nella forma della fuga dal mondo.

Di fatto, queste persone vorrebbero migliorare la qualità generale della vita liberandola dalla compulsione a competere; ma poiché hanno paura di qualsiasi rapporto umano, questa liberazione dalla lotta non può realizzarsi all’interno di una relazione.

La conseguenza di ciò, è che la liberazione dalla gabbia sociale è immaginata solo nella forma impossibile dell’uccisione simbolica dell’altro (mediante il successo o il potere, per esempio), oppure dalla fuga definitiva e solitaria dalla società: una povertà o una ricchezza assolute, che affranchino ogni residua necessità di scambio con gli altri (De Masi, 2007).

Soluzione impossibile perché un essere umano non può prescindere dalla relazione, sia pur minima con l’altro. La disperata fantasia di onnipotenza e di definitivo affrancamento produce allora, come contrappeso, sintomi inibitori e punitivi d’ogni genere.
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