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L’epoca del narcisista

 

Invano credi di poter afferrare immagini sfuggenti
Quello che desideri non esiste in nessun luogo
Se volti le spalle, subito lo perdi
Quella che guardi non è che l’ombra di un riflesso sull’acqua
Arriva e rimane fino a quando rimani tu…

( Ovidio, Le Metamorfosi III, p.433)

In un’epoca di crisi, morale e sociale, perché l’uomo cerca disperatamente di rimanere attaccato a se stesso come se vivesse in una condizione perenne di assedio?
Più che vivere, sembrerebbe un sopravvivere.
L’ipotesi che qui esplicito si basa sulla convinzione che questo dilagante e per certi aspetti anche innaturale rifugiarsi nell’Io non sia niente altro che una nuova forma di aggressività negativa proiettata nella propria interiorità con immediati riflessi sociali, umani e morali.
Partirei da una domanda: quanto è rimasto in noi del senso della storia, dell’importanza della temporalità e, in particolare modo, del fatto che questo tempo ha prodotto in noi qualcosa di non eliminabile?
La nostra cultura si è sempre basata sull’importanza morale e sociale della storia, dalla quale si produceva, poi, un ottimismo di fondo verso la vita e le stesse istituzioni politiche umane. E questa mancanza di ottimismo è data dal fatto che l’uomo, ora, non trae più insegnamento dal passato, dal suo passato, ma fa sì che il senso storico cada verticalmente. In un abisso senza fondo appare lecito chiedersi cosa abbia sostituito questa mancanza di senso della storia?
Pare che il rinchiudersi dell’Io nel dialogo autistico con lo stagno narcisistico sia la risposta alla mancanza di prospettive future, alla mancanza di aiuto da parte della storia, alla mancanza di attesa del domani: il Sé stesso è diventato il corpo-oggetto dell’hic et nunc poiché del domani non si può parlare.

( Fromm, 1976).

L’uomo psicologico: il problema dell’ansia e delle nevrosi

La società contemporanea non ha capito che l’emblema della personalità autoritaria non è più il modello di base dell’uomo produttivo, dell’uomo che vive nella società dei consumi e che da questa riceve gratificazione. Ciò che oggi ha preso il posto di quell’ipotetico uomo-consumistico-produttivo è l’uomo psicologico con le sue nevrosi. E cosa perseguita l’uomo psicologico? L’ansia e le nevrosi sono il suo problema. Il pericolo è quello di vedere frantumato il proprio io innanzi allo specchio del mondo.
Più che cercare certezze, cerca di trovare un senso alla sua vita, salvo poi ritrarsi nella soddisfazione dell’effimero ( Focchi, 2006).
Quello che vuole l’uomo psicologico è la gratificazione immediata, tralasciando ciò che riguarda il passato, anche il proprio. Con il passato si svalutano i propri ricordi. Se vogliamo, la nostalgia stessa è tuttalpiù un semplice prodotto commerciale della società dei consumi invogliato dal “mercato di massa”.
In altre parole, il narcisista ci fornisce un ritratto accurato dell’individuo svincolato dal tempo e da esso continuamente in fuga attraverso la promiscuità sessuale, l’ipocondria, la superficialità protettiva, la fuga dalla dipendenza affettiva, il terrore della vecchiaia e della morte (Lasch, 1979).
Tali condizioni hanno trasformato anche la famiglia, che è elemento determinante per la strutturazione della personalità dei figli, sembra che ogni sforzo che i genitori facciano per trasmettere amore sia sempre velato da quell’apatia psicologica di chi sa che nulla di “trans” può consegnare alla generazione successiva, poiché prioritario è il diritto alla realizzazione di sé (Fromm, 1941).
In un’epoca di sopravvivenza in cui ogni individuo ricerca il suo boccone socialmente appetibile per poter almeno di che sfamarsi fino a sera, come gli si può chiedere quella tranquillità obbligatoria per trasmettere ad altri gesti e atmosfere atemporali che permettono la prosecuzione della vita?
Per questo motivo è lecito chiedersi: ma se il senso della fine, dell’ansia della fine è lo stato morale e psicologico dell’uomo contemporaneo e la vita di tutti i giorni è sempre più minacciata dalla paura di una catastrofe imminente, che senso ha, per l’uomo psicologico, pensare al futuro?
Proprio per questo “senso della fine”, l’uomo psicologico ha potuto cercare rifugio in sé stesso cercando di familiarizzarsi con alcune tattiche di sopravvivenza, in un benessere del proprio corpo nello stesso tempo in cui si riappacifica con la propria interiorità. Solo che in questo nuovo contesto, riappacificarsi con la propria interiorità ha assunto altri significati rispetto ai valori della coscienza morale (Ehrenberg, 1998).
Credo, ad esempio, che ci si sia orientati quasi esclusivamente su questioni personali in modo del tutto vuoto e avulso dal contesto esterno: perduta la speranza di migliorare la società, ci si è convinti che ciò che conta è migliorare la propria qualità di vita, il proprio stato psichico ed il proprio corpo; cosa è, infatti, questa continua esaltazione del bel corpo, questa necessità di nutrirsi con cibi sempre più raffinati, la proliferazione delle scuole di ballo, fare jogging, praticare lo yoga o una delle tante filosofie orientali ecc., se non la rivendicazione del proprio benessere psichico e salutistico al dilagare del nulla?
Non sarebbe fuori luogo ricercare qui i motivi per cui nelle nostre società evolute ed industrializzate si riscontra un continuo aumento vertiginoso di consumo di pseudoanalisi e di psicofarmaci. Appare avvertibile, ad una prima analisi, che ciò che si è irrimediabilmente compiuto è aver annullato il nostro passato collettivo, proiettando sul nostro futuro incerto il fantasma del proprio Io. Naturalmente, questo voler consumare il presente, ha prodotto un vero declassamento del senso storico anziché una lacerazione interiore. Quello che è stato minato è il nostro terreno di radicamento a qualcosa che ha le sue radici nel passato, il che non significa automaticamente volersi riconoscere solo in questo passato, pensarsi come prodotto di tutto quello che è stato prima. La storia, insomma, non deve essere la nostra giustificazione ( Fromm, 1976).

Il desiderio, vittima sacrificale del vortice compulsivo

Da questo quadro d’insieme si evince come il desiderio sia la vittima sacrificale del vortice compulsivo dell’appagamento hic et nunc, paradossalmente esso soccombe davanti al pieno possesso di ciò che da desiderabile diviene, senza tempi di attesa, desiderato (Ciaramelli, 2000).
La post-modernità ha tolto di mezzo pregiudizi, tradizioni, ostacoli, limiti, confini che strutturavano la vita collettiva (Ehrenberg, 1999), questa emancipazione ha fatto progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posto a poco a poco nella condizione di dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento, … il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se stessi pongono l’individualità in una condizione di continuo movimento.
E ciò induce a porre in altri termini la questione dei limiti normativi dell’ordine interiore: la contrapposizione tra il permesso e il vietato tramonta per far posto a una contraddizione tra il possibile e l’impossibile.
L’avvenire è cioè vissuto per il suo “venire verso di noi” (questa è la sostanza psicologica del sentimento dell’attesa) e non per il nostro tendervi e per il nostro costruirlo .
In questa asimmetria, l’avvenire giunge a manifestarsi con un’incombenza vissuta passivamente che ha il carattere dell’immediatezza, di fronte a cui l’attesa inevitabilmente si fa ansia, e diventando inquietudine comunica uno stato d’allarme che trascina con sé una generale iperattivazione, senza però consentire una direzione di fuga. E in un’atmosfera in cui il contesto esterno non riesce a produrre certezze, è la lingua primaria del corpo ad essere parlata, nei termini della irrequietezza e della tensione muscolare, della velocizzazione del cuore e dell’incertezza del respiro (Van der Kolk,1994).
Intendo dunque dire che l’attesa si fa psicologicamente incontenibile e intollerabile proprio quando non viene stemperata dall’attività, dal procedere.

Così i pazienti, nel tentativo di liberarsi dalla morsa dell’attesa, quasi ossessivamente, rendono presente il futuro nell’anticipo, esso infatti è un ossessivo prefigurare il domani minaccioso, nel tentativo di spogliarlo di quell’indeterminatezza che lo dota dell’attendibilità ansiosa, la quale si fortifica proprio dove manca la rispondenza dell’oggetto (Green, 1991).
Si evince che il ripiegamento su di sé sia l’unico terreno di radicamento del narcisismo contemporaneo. Un egotismo che sembra legarsi ad un “codice dello spettacolo del corpo”.
Se ne deduce, allora, che lo stesso corpo, la sua stessa caratterizzazione sotto i termini di bellezza, di sessualità non solo si impone come un nuovo “universale” che vorrebbe garantire la libertà futura, ma produce soprattutto quel processo di disinvestimento ideologico e di manipolazione .
Ciò è stata la conseguenza di un contesto politico, culturale e civile, che ha esautorato la possibilità della privacy, del “culto del privato”. Non è un caso che quelle che possono essere definite come le tendenze integrative della nostra società industriale abbiano espulso tutte le più autentiche possibilità di isolamento; e che la stessa famiglia, tradizionale baluardo di una vecchia critica della società borghese, ha perso non solo di autorità, ma soprattutto di funzioni produttive-riproduttive tanto che per l’educazione dei propri figli c’è sempre più bisogno di esperti qualificati.

Il narcisismo contemporaneo è figlio dei cambiamenti che hanno portato all’attuale situazione sociale

L’Io che viene a formarsi in questo contesto, è quello di un Io che regredisce ad uno stato di passività, potremmo dire una sorta di buco nero del mondo interiore che ha inghiottito ogni forma di senso per il proprio sé, per il sociale. L’Io appare come un contenitore vuoto e avulso dal contesto, il quale è perfettamente in grado di far passare ogni cosa, mentre noi non siamo nient’altro che spettatori impassibili delle cose che entrano, salvo poi svanire assorbiti da questo stesso buco nero interiore.
Per questo motivo il più realistico stato ontologico dell’uomo psicologico contemporaneo è lo stato di depressione, del lacerante vuoto interiore.
Ciò cui si aspira non è il potenziamento individuale, né un metafisico stato trascendentale del proprio sé ma una pace interiore, ricercata in modi e condizioni che non la rendono possibile (Galimberti, 2009). Questa spinta diviene utopistica poiché abbiamo perso il senso storico che ci permette la continuità e la connessione passato-presente-futuro, la perdita della verticalità evolutiva ha prodotto uno schiacciamento al centro ove tutto è visto e considerato orizzontalmente, ove periodi storici temporalmente diversi sono collocati e fusi in un livello unico che permette l’azione illusoria verso il bene a gratificazione immediata.
Quello che sostengo è che la costituzione di un “io minimo” da concepirsi come necessità ontologica, di per sé non è negativo, nel senso che teoricamente offre al soggetto una reale e consistente via d’uscita (Lasch, 1984). Si deve invece mettere in discussione il modo in cui questo salutare egoismo viene a formarsi. Un Io minimo troppo chiuso su sé stesso, assediato dalle proprie esigenze, porta sia alla chiusura del mondo esterno per non riuscire a considerarlo Altro-da-Sè, sia al suo paradossale mantenimento come coatto bacino di scarico per i propri bisogni dell’effimero. In questo senso il ripiegamento nel privato non può offrire alcun riparo dal mondo esterno.
All’interno della vita privata causa invece l’entrata in scena dei disagi tipici della vita sociale per cui alla fine non può più offrire un rifugio tranquillo e comodo per il proprio benessere. Si tratta di un ripiegamento fortemente incrinato.
Quello che sarebbe giusto sottolineare, invece, è lo stato di devastazione di ogni aspetto della vita personale che la “società dei consumi” ha fatto esplodere in modo quasi controllato in un processo di simulazione continuo nel quale sociale ed individuale perdono ogni significato originario (Ehrenberg, 1998).
Ciò è potuto avvenire perché da un lato si è stimolata la ricerca dei nostri bisogni più effimeri, dall’altro lato si sono allentati sempre più quei legami che sarebbe stato lecito intrattenere per il mantenimento del proprio Io. E quando questa vita sociale diventa sempre più aggressiva anche i rapporti interpersonali e personali, che dovrebbero rappresentare il nostro rifugio naturale, assumono il carattere di scontro.
Un “io minimo”eticamente accettabile e plausibile sarebbe possibile solo nella sfera di un riconoscimento di autocoscienza etica, entro la quale la consistenza del proprio valore, del proprio essere corretti nel mondo in cui “siamo gettati”, rappresenta la barriera più alta ma anche più valida per non far transitare l’inconsistenza del mondo e per non riconoscersi come semplice oggetto di sé.
Solo così si potrà essere “soddisfatti di sé”.
Per poter inquadrare lucidamente il narcisismo contemporaneo è doveroso, a mio avviso, partire da queste considerazioni di ordine sociologico. Questo è l’humus sul quale si è andato a formare il Narciso dei nostri giorni e sul quale la psicoterapia tout court dovrebbe focalizzare i propri interventi.

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