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L’individuazione: un percorso difficile

La sofferenza psicologica ai giorni nostri

Le tradizioni spirituali orientali ci insegnano che la nostra sofferenza è causata principalmente dall’illusione e dall’ignoranza che ci impediscono di vedere la realtà come è veramente. Noi ci consideriamo individualità separate, con una nascita e una morte definite nel tempo, aggrappati al nostro corpo, agli oggetti, alle persone, al nostro passato e al nostro futuro senza comprendere che una legge fondamentale dell’universo è il cambiamento e l’impermanenza di tutti i fenomeni materiali, vitali e mentali che incessantemente emergono e scompaiono cambiando forma (Jung, 1936).Nelle società occidentali attuali, l’accelerazione dello sviluppo tecnologico, la globalizzazione, la minaccia ecologica, il contatto ravvicinato con altre culture, lo sconvolgimento delle tradizionali “identità” maschile e femminile, la crisi della famiglia tradizionale, hanno fatto vacillare o crollare molti punti di riferimento sociali, culturali e psicologici.

Un aspetto fondamentale di quanto avvenuto in questo secolo e soprattutto negli ultimi cinquant’anni, si riferisce al cambiamento del significato attribuito all’individualità.

Gli anni ’60 hanno tolto di mezzo pregiudizi, tradizioni, ostacoli, limiti, confini che strutturavano la vita collettiva (Ehrenberg, 1999), questa emancipazione ha fatto progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posto a poco a poco nella condizione di dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento, … il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se stessi pongono l’individualità in una condizione di continuo movimento.

E ciò induce a porre in altri termini la questione dei limiti normativi dell’ordine interiore: la contrapposizione tra il permesso e il vietato tramonta per far posto a una contraddizione tra il possibile e l’impossibile.

Scrive Ehrenberg: “Noi viviamo oggi con questa certezza e questa verità, che ognuno dovrebbe avere la possibilità di forgiarsi da sé la propria storia invece di subire la propria esistenza come un destino. … tale dinamica alimenta i valori dell’indeterminazione, accelera il processo di dissoluzione della permanenza, allarga la compagine dei punti di riferimento per scompaginarla al tempo stesso” (Ehrenberg, 1999, p. 94).

La domanda che dobbiamo porci per una riflessione accurata è la centralità che assurge il tema dell’attesa e del futuro vissuto come una minaccia. Il tempo vissuto, quello soggettivo, non coincide più con il tempo oggettivo dell’orologio, più che dalla dimensione del presente fine a se stesso siamo avvinti dalla dimensione dell’attesa, spasmodica, del futuro.Il controllo è grande, l’equilibrio è precario e la personalità che si forma è chiaramente influenzata dall’accondiscendenza con cui ci si relaziona alle persone; accondiscendenza obbligatoria per non rivivere l’abbandono originario.

la maschera dell’accondiscendenza ha una duplice funzione: da un lato reprimere la rabbia e l’aggressività, dall’altro lato tiranneggiare l’altro attraverso il controllo compiacente. Generalmente i sentimenti tirannici rabbiosi sono contro quel caregiver incapace di dare il supporto necessario alla sperimentazione dei propri desideri, rabbia che si ammanta di fantasie di distruzione e conseguenti sensi di colpa travolgenti (Ghezzani, 2006).C’è tutta l’oscillazione patologica tra il bisogno dell’altro e l’ansia dell’abbandono da una parte, e la rabbia nei confronti dell’altro perché non riesce a dargli quel contenimento affettivo così importante per lui e la conseguente ansia del legame (Focchi, 2004).

Vero e Falso Sè

In questo quadro di forte vigilanza e controllo, l’io diviene, poco a poco, fragile favorendo quella pesca di pezzi di altri-io che struttureranno poi quel falso sé così bene descritto da Winnicott.

Il vero Sé ed un io solido sono potenzialmente in ognuno, ma spesso questo potenziale non si può esprimere perché nell’infanzia non si è avuto un contenimento affettivo che abbia permesso una sana esplorazione e la costruzione di un percorso individuativo . Non si parla solo di potenzialità mentali, ma possibilità di poter essere, di potersi esprimere, e ciò passa obbligatoriamente attraverso un ambiente che faciliti questo percorso (Tagliacozzo, 1989).Gli esseri umani sono tutti dei Falsi Sé, perché siamo tutti, in qualche modo, naturalmente condizionati dalla cultura in cui viviamo; il trucco, il mascheramento che ognuno di noi adotta tutte le mattine è a protezione del Vero Sé, di ciò che di sé si vuole proteggere.

Ci può essere poi un’organizzazione estrema del Falso Sé, quella patologica, quando è talmente coercitivo ciò che l’ambiente ci induce a fare che si perdono di vista le proprie potenzialità, in questa condizione ogni sofferenza che il bambino sperimenta è dovuta alle risposte dell’ambiente che può facilitare o ostacolare la crescita.

Alice Miller, una psicoanalista svizzera che ha scritto belle pagine sull’infanzia, sostiene che il bambino che ha la fortuna di crescere con una madre capace di rispecchiarlo e che si mette al servizio della funzione di crescita del figlio può consentirgli di vivere i propri sentimenti; può essere triste, disperato, avere bisogno d’aiuto, senza temere per questo di aver reso insicuro qualcun’altro. Gli è consentito di spaventarsi se minacciato; sa, non solo quello che vuole, ma anche quello che non vuole, e può esprimerlo, senza preoccuparsi di venire amato o odiato per questo (Miller,1985). I bambini cercano insistentemente di com-piacere per essere visti, per esistere nelle relazioni con gli adulti.

Questo meccanismo spinto dalla “sopravvivenza psichica” produce, con il tempo, danni molto pesanti perché porta ad un tradimento degli istinti e delle pulsioni (Ghezzani, 2006).

L’amore materno adulto vero è quello per cui la madre ama il proprio bambino specialmente nei movimenti di separazione da lei, è lì che il bambino allenta la vigilanza, si rilassa, abbandona l’illusione/disillusione di avvicinarsi/scappare dalla dipendenza/indipendenza, opposti pressanti e continui del soggetto che svilupperà poi un attacco di panico.

Quasi sempre il bambino in ansia vigile preferisce l’adattamento ai bisogni dei genitori: è il male minore, anche se questo movimento conduce spesso (ma non sempre) allo sviluppo della personalità “come se”.

Egli sviluppa un atteggiamento in cui si limita ad apparire come ci si aspetta che debba essere, e si identifica totalmente con i sentimenti che mostra; il suo Vero Sé non può formarsi né svilupparsi perché non può essere vissuto.

I genitori hanno trovato nella com-piacenza del proprio figlio la conferma che cercavano, un sostituto alla sicurezza che a loro mancava, e il bambino, che non ha potuto costruirsi una propria sicurezza, dipenderà, dapprima consciamente poi in modo inconscio, da loro. Non potendo abbandonarsi a sentimenti propri e non avendone fatto esperienza, egli non conosce i suoi veri bisogni, anche da adulto dipenderà perennemente dalla conferma delle persone (Cultrera, 1992).

Il nucleo problematico sta nella mancata integrazione di quegli aspetti della personalità che sono stati considerati non idonei alla fuoriuscita, le debolezze e le fragilità ritenute dannose ad essere mostrate.

Il soggetto tollera solo le proprie parti accettate dall’Altro, non prendendo nemmeno in considerazione il fatto che non sono solo i sentimenti belli, buoni, piacevoli a farci sentire vivi, a conferire profondità alla nostra esistenza, ma spesso, sono proprio quelli scomodi, non adattati, che preferiremmo evitare: impotenza, rabbia, vergogna, invidia, gelosia, confusione, …….. molto spesso diviene impossibile contenere la fata e il mostro (Monti, 2000).

Trauma cumulativo

Masud Khan (1963) parla di “trauma cumulativo” per descrivere gli effetti del prolungato danneggiamento psichico del bambino, quando la madre sistematicamente fallisce nelle sue funzioni protettive e di Io ausiliario. In questo quadro essa, non solo ostacola la regolazione degli stati ansiogeni e la mentalizzazione, ma diviene lei stessa fonte di ansia.

Trovo molto illuminante il fallimento della funzione materna come “scudo protettivo” per i bisogni anaclitici del bambino di cui parla Khan. La sua tesi si concentra sul fallimento della barriera protettiva che può verificarsi durante tutto il corso dello sviluppo del bambino. “Il trauma cumulativo ha le sue origini in quel periodo dello sviluppo in cui il bambino ha bisogno ed usa la madre come scudo protettivo ….. Quando queste carenze del ruolo protettivo diventano troppo frequenti e producono sullo psiche-soma del bambino degli urti che questi non ha nessun mezzo per eliminare si costituisce allora un nucleo di reazioni patogene. Queste a loro volta iniziano un processo di reciproca azione con la madre che è ben diverso dall’adattamento della madre ai bisogni del bambino” (Khan, 1971, p. 49).

Tale azione può iniziare ad organizzare nel bambino una sensibilità particolare agli stati d’animo della madre e provocare così uno squilibrio nell’integrazione degli impulsi aggressivi. Altra conseguenza è che viene stornata la delusione che accompagna l’inevitabile separazione dalla madre mentre viene manipolata una falsa unione di tipo identificatorio. In questo modo, in luogo della delusione e del rimpianto, si instaura un atteggiamento dell’Io pieno di preoccupazione per la madre ed un desiderio eccessivo che la madre si preoccupi a sua volta.

In altre parole, vi è un’adesione verso identità altrui, all’instaurarsi di un Falso Sé funzionale alla propria sopravvivenza laddove il processo individuativo è impossibile.

Il senso d’angoscia

Quasi tutti hanno conosciuto in un certo momento della loro vita quel sentimento spiacevole di apprensione per un qualcosa di indefinito e indefinibile. E’ proprio il non riuscire a dare un senso logico e razionale alla propria apprensione che caratterizza il sentimento di angoscia.

In alcuni momenti questi stati di apprensione possono avere delle impennate improvvise e, apparentemente ingiustificate, dando luogo alle cosiddette crisi d’ansia. Quando ciò accade si complica il quadro clinico ed insorge il panico con i suoi svariati sintomi quali un aumento del battito cardiaco, sudorazione, dispnea, impressione di giramenti di testa e perdita di conoscenza e, tra tutti il più spiacevole, quello di essere sul punto di morire. Possiamo affermare che la morte, non soltanto quella fisica ma anche quella metaforica, come dissoluzione del proprio Sé, sia il tema centrale dell’esistenza umana fin da quando si è bambini. Questa preoccupazione viene dalla consapevolezza dei propri limiti, e così, l’idea della morte o della malattia, o il trovarsi in situazioni estreme di vita dalle quali si può uscire sconfitti, porta ad un senso di fragilità che sfocia, inevitabilmente, nel senso di angoscia (Anisfeld, 2000).

Solitamente si crede che il bambino sia interessato al gioco e, quindi, che il suo mondo abbia una sola valenza, quella del piacere; non vi è dubbio che il bambino sia dominato dal principio di piacere, tuttavia occorre considerare che se non si sente protetto da quel senso di dissolvimento che abbiamo detto, tende ad evitare il gioco e a chiudersi in se stesso: diventa depresso, aggressivo, si difende da un pericolo che, pur non essendo reale, è vissuto intensamente e con enorme timore.

Il bambino ha due necessità prevalenti, di essere protetto nella sua debolezza e di essere accettato (Horney, 1937); la protezione non deve essere eccessiva, trasformandosi in iperprotezione, perché se così fosse egli non potrebbe espandersi e canalizzarsi in modo autentico per quelle che sono le sue attitudini ed i suoi veri bisogni; l’accettazione non deve essere formale ma vero riconoscimento del bambino anche nei suoi aspetti meno positivi.

Se il bambino non è aiutato nei suoi sforzi di individuarsi per quello che è, oppure è spinto ad una definizione del Sé che soddisfi la rappresentazione che del figlio ha il genitore, questi ha due possibilità: sottomettersi o ribellarsi, o le due cose insieme. Il più delle volte si verificano entrambe e sono così gettate le basi del conflitto. Il bambino all’inizio tende a ribellarsi ma, con il tempo, aderisce alle richieste dei genitori per evitare il rifiuto ed il ritiro dell’affetto.

In alcuni casi, egli può dare l’impressione di essere autonomo nelle scelte manifestando comportamenti di tipo oppositivo ma è una fuga in avanti; infatti dopo poco tempo, tende ad uniformarsi alle richieste ed ai bisogni degli altri per non andare incontro alla disapprovazione ed alla solitudine. Si capisce che una condizione di solitudine nel bambino determina in lui una situazione di incertezza circa i modi e le strategie che deve trovare per raggiungere i propri equilibri.

Insomma, se deve scegliere tra ciò che è veramente e ciò che gli altri pensano di lui, tra il suo progetto in solitaria e quello altrui con le garanzie del massimo appoggio, egli tende ad accettare la soluzione apparentemente più facile ed agibile … quella proposta dagli altri. Parliamo di soluzione apparentemente più facile perché in realtà il bambino con il tempo è costretto a rinunciare ad un bisogno importantissimo che è quello di tracciare il proprio percorso individuativo.

Questo schema concilia due bisogni contrastanti: quello di essere accettato ed amato dagli altri ed il bisogno di essere se stesso.In altre parole, il soggetto cerca un’idealizzazione del proprio Sé dove i caratteri dominanti sono la perfezione, il senso di onnipotenza e di onniscienza. In questo modo vi è l’illusione di aver trovato i propri equilibri, di aver superato l’odio in se stesso, di aver conquistato l’approvazione di altri, ma è solamente un’illusione poiché la fragilità dell’io che struttura il soggetto non tarderà a rendersi manifesta.

E’ come se il soggetto dicesse: sono come voi volete che io sia ma anche come io voglio essere. In questo modo si illude di aver superato il conflitto di base, vale a dire, l’antitesi tra il proprio bisogno di autorealizzazione e il bisogno degli altri di vedere il soggetto uniformato alle indicazioni prevalenti e convenzionali della società.

Si capisce facilmente che i tentativi di superare i conflitti che sono partiti dall’ansia di base e si sono strutturati e cristallizzati in schemi nevrotici funzionali al bisogno di sfuggire alla sofferenza e al conflitto non possono funzionare poiché tutta la vita del soggetto diventa una fatica ed una finzione.

In “Inibizione, sintomo e angoscia” (1925), Freud, dopo aver precisato che l’inibizione ha un preciso rapporto con la funzione e non necessariamente esprime una qualche patologia, fa notare che il rapporto tra inibizione e angoscia è evidente e non può essere a lungo ignorato poiché si manifesta prepotentemente legandosi a situazioni od oggetti specifici, oppure convertendosi in sintomi somatopsichici.

La ricerca di un equilibrio fittizio non esprime evidentemente una difesa generica nei confronti di un qualche pericolo più o meno grave, ma è specificatamente correlata al bisogno di conservare la propria integrità minacciata da un senso di annichilimento che, prima ancora che doloroso, è percepito appunto con terrore.

Vorrei concludere questo scritto con una breve poesia di Eliot (1925) inserita nel libro di Masud Khan, I sé nascosti ( 1990 ). Penso che sia paradigmatica della complessità del processo identificatorio, ma anche della possibilità che il corpo dà, attraverso la sofferenza, ai soggetti per l’individuazione della propria via:

Esiste un’altra via, se ne avete cuore.

La prima l’ho descritta in parole note

poiché l’avete vista, come tutti l’abbiamo,

negli esempi, più o meno, di vite intorno a noi.

Ma l’altra è sconosciuta, perché ci vuole fede,

la fede nata dalla disperazione.

Destinazione, non se ne può dare;

voi sapete ben poco finché non giungete;

viaggerete cieca. Ma la via sbocca nel possesso

di quel che voi cercaste fuori strada”. ( T.S. Eliot ).

Bibliografia

Anisfeld, L.F. (2000). The call of solitude. Alonetime in a world of attachment: Esther Bucholz. New York: Simon & Schuster.

Cultrera, V. (1992). Panico!. Firenze: Guaraldi.

Ehrebenger, A. (1998). La fatica di essere se stessi. Torino: Giulio Einaudi editore,1999.

Focchi, M. (2006). La mancanza e l’eccesso. Torino: Antigone edizioni.

Freud, S. (1925). Inibizione, sintomo, angoscia. Torino: Bollati Boringhieri,1978.

Ghezzani, N. (2006). La dipendenza affettiva e il panico. Retrieved september 13, 2006, from http://www.psyche.altervista.org .

Horney, K. (1937). La personalità nevrotica del nostro tempo. Milano: Newton Compton,1976.

Khan, M.R.R. (1971). Lo spazio privato del sé. Torino: Bollati Boringhieri,1979.

Khan, M.R.R. (1983). I sé nascosti. Torino: Bollati Boringhieri,1990.

Jung, C.G. (1936). Yoga e occidente, in Opere (vol. XI, Psicologia e religione). Torino: Bollati Boringhieri, 1958.

Miller, J.A. (2006). Una fantasia. La Psicoanalisi, 38, 24.

Monti, F. (2000). Viaggi di andata e ritorno zero – tre anni. Urbino: Quattroventi.

Tagliacozzo, R. (1989). Il bambino rifiutato: falso sè, mantenimento e rottura; angoscia del vero sè. Riflessioni sulla depersonalizzazione. Rivista di Psicoanalisi, 35, 843-865.

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