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Oggetto transizionale:

istruzioni per l’uso nella stanza di analisi

“I pensieri muoiono nel momento in cui prendono forma le parole.”

( Arthur Schopenhauer )

Tutti noi conosciamo bene la coperta di Linus, sia come oggetto concreto che come simbolo. La coperta sta lì a testimoniare la protezione necessaria per un corretto sviluppo dell’essere umano, non deve essere troppo corta ma neanche troppo soffocante. Essa serve per avvicinarsi gradualmente al mondo degli adulti attraverso un meccanismo illusorio fondamentale per la costruzione del processo di simbolizzazione, ciò che Winnicott chiama “fenomeno transizionale”.

Esso si presenta, per l’appunto, nella fase di transizione del bambino, dallo stato di essere fuso con la madre (“l’oggetto soggettivo”) allo stato di essere in rapporto con la madre come qualcosa di esterno e separato (relazione soggetto-oggetto); è composto da oggetti che transeano, collocandosi entro l’area esperienziale intermedia che può essere definita come “illusione”, ossia “[…] tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà” (Winnicott, 1971, p. 157-158), e si configurano innanzitutto come la prima esplorazione della differenza creatasi tra il “me” e il “non-me”, ossia di ciò che verrà definito da Winnicott, appunto, come spazio simbolico.

E’ molto importante sottolineare che l’aspetto essenziale, nel concetto di oggetti e fenomeni transizionali, è il paradosso e l’accettazione del paradosso: il bambino crea l’oggetto, ma “l’oggetto era lì in attesa di essere creato e di divenire un oggetto investito di carica”.

Questo “uso” ci rende due oggetti, o due rappresentazioni possibili e diverse tra loro, che non possono coesistere se non entro il paradosso o l’illusione. In sostanza, per poter stabilizzare l’oggetto dobbiamo farlo nostro, entro una rappresentazione, utilizzandolo, ossia interpretandolo praticamente nell’atto, determinando così uno dei due oggetti possibili. Non è dunque in nostro potere alterare le qualità dell’insieme illusorio ma è in nostro potere determinare l’oggetto utilizzandolo (riappropriazione nell’atto mediante l’“uso”).

Determinando l’oggetto entro una rappresentazione, determiniamo correlativamente anche il soggetto, che cade dove cade il dito” (Giannakoulas, 1988, p. 132).

Il bambino, ancora, non usa simboli in questo senso. Egli scopre invece il simile nel differente.

Il momento di illusione è permeato dalla sovrapposizione psicologica tra madre e bambino: un momento in cui la madre vive un’esperienza con il bambino ponendosi inconsciamente e naturalmente come oggetto che può essere sperimentato dal bambino sia come creazione propria che come scoperta. Per Winnicott, la madre offre qualcosa di più complesso della creazione di un campo psicologico interpersonale nel quale il bambino entra contemporaneamente nella realtà esterna, nella realtà interna e nell’esperienza dell’illusione (Ogden, 2001).

L’“oggetto transizionale” risulta pertanto essere un surrogato materno, ma proprio questa sua qualità porta il bambino a sviluppare lentamente la capacità di “usare” simboli, scoprendo che qualcosa può stare per qualcos’altro; l’usare simboli deriva quindi dallo scoprire il simile nel differente attraverso lo sperimentare.

Esso viene perdendo progressivamente il proprio valore non perché venga rinnegato o rimosso, ma in funzione della capacità lentamente acquisita dal bambino di attribuire “valore” agli oggetti. In altri termini, il bambino smette di cercare onnipotentemente la soddisfazione del desiderio in un solo oggetto, l’oggetto eletto come “oggetto transizionale” appunto, per iniziare a cercare soddisfazioni parziali in quegli oggetti che risultino rispondere al bisogno specifico, passando in questo modo dalla ricerca onnipotente della soddisfazione allucinatoria del desiderio, alla ricerca dell’oggetto che permetta la soddisfazione del desiderio parziale (Bion, 1962).

Attribuire valore o significato implica porre un segno o simbolizzare, il che è propriamente l’esito dei “fenomeni transizionali” descritto da Winnicott.

Il bambino oltrepassa pertanto questa fase quando impara a simbolizzare, nel senso di istituire dapprima simboli senza riconoscerli, ritrovando la madre nell’ambiente, o, se si preferisce, ritrovando nell’oggetto (e correlativamente nel soggetto) il simbolo dell’unità originaria individuo-ambiente intesa come unità del bisogno e della sua soddisfazione (Winnicott, 1958).

Ciò significa che l’“uso” dell’oggetto transizionale disillude progressivamente il bambino, ponendolo di fronte al fatto che l’oggetto esterno non è adeguato a rispondere al bisogno più di quanto le sue proprietà non gli consentano (proprietà scoperte attraverso l’“uso” stesso, come abbiamo visto).

L’“oggetto esterno” diviene ciò che è, nel senso che non è più di ciò che si è scoperto, o sperimentato, essere, utilizzandolo in funzione del bisogno o del desiderio. Questa perdita di “valore” e di “significato” da parte dell’oggetto transizionale non è catastrofica né traumatica, come potrebbe esserlo la morte della madre o il suo abbandono, poiché il bambino è ormai in grado di tollerarla, dato che il valore e il significato materno si sono sparsi, diffondendosi sugli oggetti che hanno valore e significato per il bambino stesso ( Masud Khan, 1974) .

Da quanto detto si può dedurre pertanto che, per il bambino, ma più in generale per l’essere umano, passare al “principio di realtà” significa cercare ciò di cui ha bisogno in un luogo che non è né dentro, né fuori, ma che istituisce il dentro e il fuori. Questo luogo è lo spazio simbolico apertosi entro l’area di illusione, dove ciò che si presenta si sovrappone a ciò che di esso può esser concepito e dove, mediante l’uso, sorge il significato e si istituisce il campo culturale.

L’importanza di tutto il discorso winnicottiano incentrato sulla nascita dell’area creativa dei fenomeni transizionali, a mio avviso, apre un’approfondimento rispetto alla conseguente dissonanza cognitiva che si viene a creare: il paradosso per il quale una cosa, che dovrebbe essere fatta in un certo modo (ossia che ci si attende abbia certe proprietà connesse fra loro da certe relazioni) ci appare invece essere fatta in un altro (ossia disattende ciò che ci si attende).

Detto diversamente, le proprietà che ci si attende in base al significato dell’oggetto non si presentano, o si presentano diversamente da come ce le si attende.

Questo paradosso apre la via al processo ipotetico-creativo (secondo Winnicott ipotesi e creatività originano dalle stesse basi), il cui fine è risolvere la contraddizione o l’incongruenza, ripristinando l’univocità del segno, ossia la coerenza delle proprietà e delle relazioni da esso rappresentate.

Questo pensiero ha dunque come fine quello di stabilire che ciò che ha certe proprietà (ossia ciò che si è presentato come frustrante rispetto a un determinato significato precedentemente acquisito e proiettato sull’ambiente), ha un certo significato (ossia può essere ricompreso entro un segno che sia in grado di rappresentare la nuova relazione che lega tutti gli elementi, ivi inclusi quelli frustranti, facendo in questo modo evolvere il segno stesso nel senso di una spiegazione)” [Lacan, 1974, p.134].

Quando definiamo un oggetto come “reale” dobbiamo dunque intendere la stabile rappresentazione mentale di un processo induttivo-ipotetico-deduttivo che lega fra loro, entro un significato verificato nell’uso, gli stimoli, le frustrazioni e i segni stabilmente associati che possono emergere come interpretabili entro una relazione.

Questa scansione delle fasi del pensiero, unita alla conseguente definizione dell’“oggetto reale”, ci consente di comprendere pienamente il passo in cui Winnicott afferma: “Il fatto è che un oggetto esterno non esiste per voi e per me se non nella misura in cui sia voi che io lo alluciniamo: ma se siamo sani, stiamo ben attenti a non allucinare, a meno che non sappiamo bene che cosa vedere” (p.68).

L’importanza di tutto ciò sta nella potenziale creazione di uno spazio mentale transizionale come una parte dello sviluppo dell’intersoggettività; in analisi, esso può essere tradotto con la possibilità del paziente di cominciare a giocare e ad affrontare creativamente, internamente, un’esperienza di alterità che in precedenza poteva essere gestita solo attraverso l’enactment ( Bromberg, 2006).

Questo terreno di gioco includerebbe una “terza prospettiva capace di aprire uno spazio, tra paziente ed analista, in cui sia possibile pensare alla relazione” ( Fonagy e Target, 1995). Esso consente la coesistenza degli opposti, e la sua illogicità non solo deve essere accettata dall’analista ma anche usata come valido contesto relazionale.

In altre parole, “lo stato transizionale della mente non deve essere concepito come meno reale di ogni altro, come se fosse una stazione intermedia verso qualcosa di più sano” ( Bromberg, 2006, p. 208).

Il processo creativo insito nel discorso psicoanalitico è una forma d’arte in cui i soggetti partecipanti possono esprimersi a tutto tondo includendovi, anche e soprattutto, i processi emozionali. Se si è troppo consapevoli di sé o ci si esamina troppo attentamente, ciò può interferire con la creatività.

Possiamo far nostre le parole di Francis Bacon sull’arte, alla pratica psicoanalitica: “l’arte è un metodo per dischiudere aree di sentimento invece della semplice illustrazione di un oggetto”, e ancora: “le emozioni, complessi stati della mente, emergono dalle stravaganze della vita”.

La resistenza, anche della psicoanalisi, a non far entrare nella discussione epistemologica verità apertamente in conflitto è capibile, anche considerando le pretese del primo Freud di voler dare alla sua nuova disciplina uno statuto scientifico; ma è mia opinione che ciò ha fatto perdere alla cura psicoanalitica ed al conseguente cambiamento terapeutico molto tempo, così ci si è concentrati sulla sua valenza più profonda solamente nell’ultimo ventennio: “ stare negli spazi bianchi, non chiudere con risposte, sospendere il giudizio, accettare il paradosso e il linguaggio metaforico, conoscere verità altre, allontanarsi dal dogmatismo, ecc….”.

Per trovare la verità che determina stati della mente peculiari e inevitabilmente in conflitto, si rinunciava a consumare energia per sapere come e perché, e ci si limitava a riferire ciò che accade nella mente in presenza dell’analista.

Il processo diviene affascinante quando lascia emergere idee non volute. E’ il linguaggio del vero Sè, l’equivalente verbale dello “squiggle” di Winnicott o il momento in cui, secondo Lacan, il soggetto scopre la sua voce, rivelata tramite i lapsus o un modo di esprimersi inconsueto (Bollas, 1999).

L’area intermedia dell’esperienza, quella in cui origina l’oggetto transizionale, che è “dato e creato insieme“, rappresenta il primo tentativo, nell’esperienza infantile, di coniugare realtà e fantasia, mondo interno e mondo esterno; questa “terza area” rappresenta quindi il luogo dell’esperienza in cui si sviluppa la capacità di fare simbolo e, gradualmente, diviene “la fonte del gioco, dell’immaginazione, della cultura, della religione e dell’arte.”

Questo processo entra inevitabilmente in gioco nella delicata dimensione transferale propria della relazione analitica, offrendo così l’opportunità di imparare a relazionarsi in maniera sana, districandosi gradualmente dalle tendenze identificative e proiettive ( Bollas, 1987).

Ed è la metafora, che dall’oggetto transizionale origina, ad essere al centro del discorso psicoanalitico contemporaneo, essa ci permette di costruire un linguaggio in cui gli opposti stanno insieme attraverso il paradosso della coesistenze di ragione e sentimento, dà vita alle parole facendole diventare note musicali. Un momento dopo non suonano più allo stesso modo e non significano più la stessa cosa.

Ogden ci illumina in tal senso: “quando un paziente mi chiede di ripetere ciò che ho appena detto, posso dirgli che mi è impossibile, perché il momento è ormai passato. E posso aggiungere che insieme potremmo cercare di dire qualcosa a partire dal sentimento evocato in lui da ciò che è appena accaduto” (Ogden, 1997, p. 8).

Quando è viva, l’analisi riesce facilmente a essere per periodi di tempo un esperimento che ha lasciato le acque sicure del porto per addentrarsi nel mare aperto, barcollando ed aggrappandosi (Bromberg, 2001), all’inizio in maniera molto stabile ma scoprendo, via via che è possibile ritagliarsi un passaggio tra le varie isole.

L’analisi che si riduce solamente a una forma abitudinaria, nella quale il sapere viene trasmesso dall’analista, non è affatto interessante; non è più un esperimento, giacche le risposte, almeno in linee generali, sono note fin dall’inizio (Ogden, 1997).

Ennesimo paradosso della relazione terapeutica consiste nel constatare che è necessaria una grande preparazione teorico-tecnica, ed un notevole bagaglio esperienziale per riuscire a parlare in un modo che si senta e suoni spontaneo; un modo non artificiale, né freddamente professionale, non dettato da convenzione, né da prescrizioni analitiche.

Il discorso analitico richiede che la coppia sviluppi un linguaggio metaforico adeguato alla creazione di suoni e significati che riflettano lo specifico pensare, sentire e sperimentare, questo uso del linguaggio non è una capacità innata bensì un “addestramento all’orecchio” che l’analista offre sin dal primo incontro.

Gli analisti illuminati hanno sempre saputo che la loro funzione è paradossale. Obiettivo del terapeuta non è di andare incontro alle aspettative del paziente, ma di venir loro meno.

La psicoanalisi è la scienza delle omissioni: le studia nella vita del paziente e ne porta di nuove nel rapporto terapeuta-paziente” (Levenson, 1983, p. 100).

Riveste molta importanza saper tollerare, specialmente all’inizio della seduta, che i sentimenti vissuti dal terapeuta non entrino a far parte della consapevolezza.

Questo è uno dei paradossi centrali della pratica analitica: “ per svolgere il suo lavoro l’analista deve essere capace di vivere e discutere con se stesso il modo in cui si sente accanto al paziente; tuttavia, queste esperienze sono quasi sempre inconsce” (Ogden, 2001, p.15).

L’essere trasportati dalle emozioni veicolate dalla relazione, l’essere alla deriva insieme al paziente, coinvolge un arco temporale molto ampio della relazione terapeutica in cui l’analista vive come posseduto dai suoi sentimenti prevalentemente inconsci.

Dobbiamo cercare di convivere con la consapevolezza che all’interno della relazione esista una coppia formata da analista ed analizzando intesa come unità ma non come individui separati, che si prenda ogni interstizio dello spazio psichico e simbolico; ed anche che esistano due persone reali, separate e distinte in senso sia fisico che psicologico (Winnicott, 1960).

Stare in questo processo presuppone sia lo “sperimentare con” a livello emozionale, sia fare un passo indietro, subito dopo, per cercare di captare il percorso dei sentimenti inconsci della coppia, nonché le sfumature ed i dettagli di ogni evento della seduta (Gray, 1994).

Un ruolo fondamentale riveste il linguaggio, che si veste di una forma indiretta e simbolica per riuscire a trasmettere, non tanto il cosa, quanto il come (Gaburri, Ambrosiano, 2003); è da esso che origina la metafora nel tentativo di dare una connotazione viva ed emozionale al senso delle cose. Ma l’essere materia viva e dinamica ci mette davanti all’accettazione dei limiti intrinseci al sentire metaforico:

Viene un momento in cui ogni metafora crolla… Con la metafora non si può mai sapere come andrà, e finché non ci si è convissuto abbastanza è difficile prevedere quando andrà. Non si sa mai quanto se ne potrà ricavare né quando cesserà di dare i suoi frutti. E’ qualcosa di estremamente vivo. E’ come la vita stessa” (Frost, 1930, p. 723).

L’importanza della metafora sta nel tentativo di sradicarci dalla concretizzazione del pensiero, dal suo cercare di farci cambiare angolazione per dare una chiave di lettura altra (Ferro, 2010). Questo può avvenire scompigliando le carte in tavola: attraverso essa diciamo una cosa usando i termini di un’altra, o meglio ancora, diciamo una cosa e ne intendiamo un’altra (Ogden, 2001).

Senza metafore rimaniamo inchiodati a un mondo di superfici sui cui significati non è possibile riflettere. Ma il mondo metaforico è un contenitore dove possiamo trovarci di tutto, è una modalità evocativa in cui un’immagine insolita o una giustapposizione impossibile vengono usate per dire una verità che è difficile mettere in termini realistici o descrittivi.

Bollas estende, per esempio, il suo utilizzo anche alla bugia: “ la bugia è una metafora. Una verità convenzionale, e l’atteggiamento convenzionale nei confronti di dire la verità vengono violati dalla logica rivoluzionaria della metafora” (p.193).

Vorrei concludere questo scritto con un commento illuminato del premio Nobel per la fisica, P.W. Bridgman (1950), che ci pone davanti all’accettazione di quello che è, e molto probabilmente sarà sempre, uno dei più grandi limiti della conoscenza umana:

L’intuizione più rivoluzionaria che discende dai nostri esperimenti di fisica è che risulta impossibile trascendere il punto di riferimento umano…

L’intuizione nuova deriva dalla presa d’atto che in definitiva

la struttura della natura sia tale da non consentire una sufficiente corrispondenza con i nostri processi di pensiero e quindi da non permetterci neanche di pensarla…

Ci stiamo avvicinando a un milite oltre il quale le nostre indagine si fermeranno per sempre,

non tanto a causa della costruzione del mondo quanto della costruzione di noi stessi. Il mondo

svanisce e ci sfugge perché diventa privo di significato. Non riusciamo nemmeno a esprimere questo concetto nel modo in cui vorremmo”.

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Bibliografia

Bion, W.R. (1962a). Apprendere dall’esperienza. Roma: Armando editore (1972).

Bion, W.R. (1962b). Una teoria del pensiero, in Analisi degli Schizofrenici e metodo psicoanalitico. Roma: Armando editore

Bollas, C. (1987). L’ombra dell’oggetto. Roma: Edizioni Borla (2001).

Bollas, C. (1997). Il mistero delle cose. Milano: Cortina editore (2001).

Bromberg, P.M. (2006). Destare il sognatore. Milano: Cortina editore (2009).

Ferro, A. (2010). Tormenti di anime. Milano: Cortina editore.

Fonagy, P., Target, M. (1995). Comprendere il paziente violento: uso del corpo e ruolo del padre, in Attaccamento e funzione riflessiva. Milano: Cortina editore (2001).

Frost, R. (1930). Education by poetry, in “Robert Frost: Collected Poems, Prose and Plays”.

Giannakoulas, A. (1988). Considerazioni sull’evoluzione della tecnica psicoanalitica, presentato al VIII Congresso SPI, Sorrento (1988).

Khan, M. (1974). Lo spazio privato del sé. Torino: Bollati Boringhieri (1979).

Lacan, J. (1958). Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti vol. II. Torino: Einaudi (1974).

Levenson, E. (1983). L’ambiguità del cambiamento. Roma: Astrolabio-Ubaldini (1985).

Winnicott, D.W. (1958). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Firenze: Martinelli (1975).

Winnicott, D.W. (1960). La teoria del rapporto infante-genitore, in Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando editore (1970).

Winnicott D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando editore (1974).

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