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Caita Mornie

 

 

Se il sonno fosse (come dicono) una tregua, un puro riposo della mente,
perche´, se ti si desta bruscamente, senti che t’han rubato una fortuna?
Perche´ e` triste levarsi presto?
L’ora ci deruba d’un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile solo in sopore,
che la veglia indora di sogni,
forse pallidi riflessi interrotti dei tesori dell’ombra,
d’un mondo fuori dal tempo, senza nome, che il giorno deforma nei suoi specchi.
Chi sarai questa notte nell’oscuro sonno, dall’altra parte del suo muro?

( J.L. Borges )

 

Al confine del sogno ……. Borges e Io

… dopo il 1955 Borges capì di non essere più in grado di scrivere le sue “finzioni”; le concentrazioni linguistiche e le delicate strutture, che comportavano innumerevoli revisioni e infinite “cancellature” …. ( Ogden, 2001).

Nel 1957 scrisse, dopo aver perso la capacità di leggere e scrivere, una bellissima poesia in prosa che condensa meravigliosamente molti interrogativi fondamentali del discutere psicoanalitico:

Borges e Io

All’altro, a Borges, accadono le cose. Io cammino per Buenos Aires e indugio,

forse ormai meccanicamente, a guardare l’arco d’un androne e la porta che dà a un cortile;

di Borges ho notizie attraverso la posta e vedo il suo nome in una terna di professori o in un dizionario biografico. Mi piacciono gli orologi a sabbia, le mappe, la stampa del secolo XVIII,

il sapore del caffè e la prosa di Stevenson; l’altro condivide queste preferenze, ma in un modo vanitoso che le muta negli attributi d’un attore. Sarebbe esagerato affermare che la nostra

relazione è di ostilità; io vivo, mi lascio vivere, perchè Borges possa tramare la sua letteratura,

e questa mi giustifica. Non ho difficoltà a riconoscere che ha dato vita ad alcune pagine valide,

ma quelle pagine non possono salvarmi, forse perché ciò che v’è di buono non appartiene a nessuno, neppure all’altro, ma al linguaggio e alla tradizione. D’altronde, io son destinato a perdermi, definitivamente, e solo qualche istante mio potrà sopravvivere nell’altro.

A poco a poco vado cedendogli tutto, sebbene conosca la sua perversa abitudine di falsificare

e ingigantire. Spinoza intese che tutte le cose vogliono perseverare nel loro essere; la pietra eternamente vuole essere pietra e la tigre, tigre.

Io resterò in Borges, non in me ( seppure son qualcuno ), ma mi riconosco meno

nei suoi libri che in molti altri o nell’elaborato arpeggio di una chitarra.

Anni addietro cercai di disfarmi di lui e passai dalle mitologie dei sobborghi ai giuochi

col tempo e con l’infinito, ma codesti giuochi ormai sono di Borges e dovrò ideare altre cose.

Così la mia vita è una fuga e io perdo ogni cosa e tutto è dell’oblio, o dell’altro.

Non so chi dei due scrive questa pagina.

Ci troviamo davanti ad una scissione dell’Io in cui l’uno si trova nell’impossibilità di agire e l’altro nella necessità di sublimare;

Borges e Io…. siamo la stessa persona.

Ma siamo veramente la stessa persona Borges e me? Io sono Io,… ma Lui chi é? Forse è la mia proiezione, forse posso dire di essere il Vero Sé, cioè Me, e lui la mia maschera.

Io mi imbevo della vita diurna, lui di quella notturna.

E poi, chi è che sogna? Sono io che sogno di essere lui o è già Borges quello che si addormenta scippandomi così anche delle fantasie?

Immergendomi in tutto ciò, mi viene il terribile sospetto che la maschera piano piano si appropri di tutto ciò che è nostro!

Il linguaggio di Borges è talmente condensato che una singola parola o frase, o un singolo inciso, riescono a trasmettere ciò per cui un’altro scrittore impiegherebbe un lungo paragrafo o un intero capitolo.

I racconti di Borges prevedono quasi sempre l’incontro o la scoperta di qualcosa di “fantastico”, ossia qualcosa che introduce una discontinuità nella normale vita di veglia, come se la vita onirica si insinuasse sottilmente e silenziosamente in ogni angolo diurno, o viceversa (Ogden, 2001).

Ciò che diviene centrale è il confine metaforico tra preconscio e inconscio, il luogo ove avviene l’esperienza del sogno e della reverie; in cui ha origine ogni tipo di gioco e creatività. Un transito dove si formano le configurazioni sintomatiche di compromesso che limitano la nostra libertà offrendoci in cambio un po’ d’ordine e un’illusione di sicurezza (Ogden, 2001).

Il confine tra inconscio e preconscio, il confine del sogno, è anche il luogo metaforico che tramuta l’esperienza grezza del “ è ciò che è” [ gli elementi beta di Bion (1962)] in esperienza consapevole mediata dalla simbolizzazione verbale.

Forse è questa la vera trasformazione che aveva in mente Freud quando scrisse “Wo Es war, soch Ich werden”, letteralmente “ dove era ciò che è, lì dovrò diventare”; se così fosse risulterebbe inadeguata la traduzione inglese di Strachey: “ Where Id was, there Ego shall be”, in italiano:

dov’era l’Es, deve subentrare l’Io” ( Freud, 1933).

L’esperienza inconscia e quella preconscia, l’esperienza sensoriale grezza e quella mediata dalla verbalizzazione sono prive di senso eccetto che in relazione l’una con l’altra, continuano per tutta la vita a conversare tra loro, ciascuna creando, negando e conservando l’altra.

Il momento che precede l’atto di parlare, disegnare o sognare non è una condizione di attesa priva di affetti; è, al contrario, un momento ricolmo del desiderio di dare voce a qualcosa di inarticolato. E’ una particolare vitalità che non compare nel discorso parlato perchè, una volta pronunciate quelle parole, l’impulso all’espressione simbolica è stato consumato ed ucciso. Il confine del sogno è il luogo in cui questo impulso scalpita (Ogden, 2001).

Se riusciamo a ricordare qualche sogno al momento del risveglio, o se riusciamo a trattenere parte della nostra reverie prima che questa sfugga completamente alla coscienza, significa che le conversazioni che intratteniamo con noi stessi al confine del sogno possono liberarsi dalla morsa della rimozione grazie al lavoro psicologico in atto, che include anche la creazione di adeguati mascheramenti. Tuttavia, i sogni e le reverie che riusciamo a ricordare mantengono sempre il loro dialogo con ciò che resta rimosso, con i gesti inquieti di chi è stato ridotto al silenzio (Andreas-Salomè, 1916).

Al confine dell’attività onirica, il sognatore che sta sognando è in conversazione con il sognatore che può comprendere il sogno (Grotstein, 2000).

E’ questo, a mio avviso, lo spazio bianco dove si può collocare il lavoro analitico; una sorta di mondo simbolico pieno di vuoto. Qui si formano quelle esperienze inconsce prodotte dai sogni e dalle reverie di paziente ed analista attraverso la costruzione intersoggettiva inconscia che Ogden chiama così bene “terzo analitico”: esso diviene il vero soggetto dell’analisi, dalla sua creazione in poi ogni produzione onirica o reverie non potrà più essere considerata esclusivamente individuale.

Da questo modo di intendere il sogno discende un’importante conseguenza per la tecnica, vale a dire che le associazioni dell’analista sul sogno del paziente non sono meno importanti di quelle del paziente sul proprio sogno. Le conversazioni al confine del sogno non sono sempre private

(Ogden, 2001)………

……. non sono alla ricerca della forma,

ma disponibile all’incontro

con qualsiasi forma che

giunga invocata attraverso me

da un sé non mio ma nostro.

( Ammons, 1986)

 

Per rendere possibile tutto ciò bisognerebbe avvalerci di una nuova ipotesi: ovvero che l’esperienza onirica è distinta dal significato del testo onirico che viene ricordato ( Masud Khan, 1990).

Forse anche Freud stesso era consapevole di questa distinzione. La sua affermazione (1925) che “ i sogni che svolgono meglio il proprio compito sono quelli di cui non si è in grado di riferire nulla dopo il risveglio” sembra avere maggiori implicazioni della semplice funzione del sogno come guardiano del sonno.

Il testo onirico implica una sorte “fatale” per la persona cui si riferisce. Da ciò deriva l’impellente bisogno di comunicarlo agli altri, perchè sia interpretato e compreso, in modo da riportare gli eventi al loro corso naturale.

Il testo onirico si appropria di alcuni aspetti dell’esperienza onirica, per inserirvi gli elementi conflittuali del vissuto (rievocato o rimosso) di un individuo, e trasformarli in un racconto che può essere comunicato, condiviso o interpretato. Ma il sognare di per sé è al di là dell’interpretazione.

La concretezza del sogno, la sua materialità, per così dire, risiede proprio nel reciproco scambio fra una testimonianza e un’interpretazione. Contenuto mentale, all’inizio informe e umido, si solidifica durante la prima esposizione, cioè la testimonianza del sognatore, e finisce per prender corpo con l’interpretazione che di lui fornisce il suo interlocutore (Nathan, 2011). Da ciò si evince che la materialità del sogno è prima di tutto interazione.

Esso diviene sostanza solo in stereofonia.

Un enunciato talmudico è illuminante in tal senso:

Tutti i sogni seguono la bocca.

( Talmud Babilonese, trattato Berakhot)

Ovvero, la realizzazione del sogno, ciò che ne avverrà nella realtà, deriva dall’interpretazione.

Il talmud è l’espressione scritta dello spirito polemico ebraico, è una discussione continua.

Nessun enunciato viene considerato definitivo, nulla distingue il racconto storico dalla parabola: hanno tutti uguale dignità e tutti possono essere messi in discussione.

Le interpretazioni che possono essere fornite al sognatore sono molteplici, facendo risaltare contesti referenziali differenti a seconda dell’identità, della cultura d’origine, della lingua e della formazione dell’interprete. Tuttavia, il numero dei quadri di riferimento non è illimitato, anche se le loro forme si declinano all’infinito. Tutti, infatti, presuppongono che il sogno non sia un assemblaggio casuale di immagini e parole. Inoltre, come sottolinea Ogden, nell’atto della richiesta di interpretazione di un sogno vi è anche la presentificazione di un terzo, un personaggio invisibile con il quale è stato stabilito un insospettabile dialogo all’insaputa dell’Io.

Tutte le interpretazioni implicano che il sogno sia un dialogo con un interlocutore di natura radicalmente diversa da quella del sognatore.

Ecco che la parabola talmudica stimola due importanti riflessioni: “ in materia di interpretazioni di sogni, diffidate delle verità poiché ne esistono più di una!”, ed anche .. “ state attenti a chi raccontate il vostro sogno perchè esso si realizzerà secondo la bocca dell’interprete”.

In fondo, il pragmatismo ebraico lascia intendere che la natura più profonda, più segreta di una persona dipende da un’altra (Nathan, 2011).

Al confine del sogno ……. Ireneo

Lo ricordo e ricordo la passiflora oscura che teneva in mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, né mai lo vedrà, anche se l’avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera”.

“ Il mio primo ricordo di Funes è assai netto. Lo vedo in una sera di marzo o febbraio del 1884. Mio padre, quell’anno, m’aveva portato in villeggiatura a Fray Bentos. Stavo tornando con mio cugino Bernando Haedo dalla tenuta di San Francisco. Alzai gli occhi e vidi un ragazzo che correva per lo stretto e rovinato marciapiede come su uno stretto e rovinato muro. Ricordo le sue scarpe di corda, ricordo la sua sigaretta e il suo volto duro.

Bernando gli gridò, imprevedutamente: “Che ore sono, Ireneo?“ . Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l’altro rispose: “Mancano quattro minuti alle 8, ragazzo Bernando Juan Francisco” . La voce era acuta, burlesca.

Sono così distratto che questo dialogo non avrebbe attirato la mia attenzione se non ve l’avesse richiamata mio cugino, cui stimolavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell’altro. Mi disse che il ragazzo della stradetta era un certo Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare nessuno e di sapere sempre l’ora, come un orologio. Aggiunse che era figlio d’una stiratrice del paese, Marìa Clementina Funes, e che suo padre, secondo alcuni, era un inglese O’Connor, medico agli stabilimenti; secondo altri, un ranchero del distretto del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri. Le estati dell’85 e dell’86 le passammo a Montevideo. Nell’87 tornai a Fray Bentos. Chiesi del “cronometrico Funes”. Mi risposero che era stato travolto da un cavallo selvaggio nella tenuta San Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l’impressione di spiacevole stranezza che mi fece questa notizia: l’unica volta che l’avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto; la disgrazia, nel racconto di mio cugino Bernando, aveva molto d’un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero che non si muoveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di fico in giardino, o su una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l’avvicinassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto di simulare che il colpo che l’aveva fulminato fosse stato benefico… Due volte lo vidi dietro all’inferriata, che grossamente sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un odoroso rametto di santolina. Non senza qualche vanagloria, io avevo cominciato da quel tempo lo studio metodico del latino. Avevo con me diversi volumi sull’argomento.

Ireneo, venuto a sapere del mio arrivo, mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa in cui mi pregava di prestargli uno qualsiasi di quei volumi, insieme con un dizionario “per la buona intelligenza del testo originale, poiché ignoro ancora il latino”. Prometteva di restituirli in buono stato e quasi immediatamente. Glieli prestai ma dopo poco tempo, dovendo tornare a Montevideo inaspettatamente, andai per riprendermeli.

Nel rancho ben tenuto fui ricevuto dalla madre di Funes. Mi disse che Ireneo era nella stanza di fondo e che non mi meravigliassi di trovarlo allo scuro, poiché soleva passare le ore morte senza accendere la candela. Attraversai il patio lastricato, l’oscurità mi sembrava totale. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava latino… seppi che erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia! L’argomento di questo capitolo è la memoria.

Senza il minimo cambiamento di voce Ireneo mi disse di entrare. Stava sulla branda, fumando.

Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia. Mi disse che per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e più banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.

Poteva ricostruire i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: “La mia memoria è come un deposito di rifiuti”.

Dall’oscurità, Funes continuava a parlare. Mi disse che verso il 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché averlo pensato una sola volta gli bastava per sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci volessero due segni e due parole, in luogo d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemila tredici diceva (per esempio) Maximo Perez. A ogni parola corrispondeva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molti complicati…

Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes, aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l’aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita e immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell’interminabilità del compito e quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.

I due progetti che ho detto (un vocabolario indefinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte).

Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel modo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.

Il chiarore esistente dell’alba entrò per il patio di terra.

Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato nel 1886; mi parve monumentale come il bronzo, ma antico come l’ Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei movimenti) durerebbe nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti.

Ireneo Funes morì nel 1889, d’una congestione polmonare”.

Ireneo Funes è un personaggio uscito dalla penna di Jorge Luis Borges. Si tratta del protagonista di un brevissimo racconto pubblicato nel 1944, all’interno della raccolta “Finzioni”.

Funes è un ragazzo di campagna che, in seguito a un incidente, diventa disabile acquisendo però una memoria pressoché perfetta.
La memoria perfetta per Funes è un’esperienza così totale che a malapena si accorge della sua infermità. Anzi, solo dopo che è a letto, paralizzato e senza far niente, gli sembra di essersi veramente risvegliato, di aver iniziato a usare per la prima volta i propri sensi. La sua capacità di ricordare è così perfetta che un semplice frammento di tempo si dilata nel ricordo a dismisura. Un mondo “sovraccarico” di dettagli, quello di Funes: un mondo in cui non c’è spazio per il pensiero perché pensare è astrarre; così come egli fatica a dormire perché dormire significa “distrarsi dal mondo”, riuscire a dimenticarlo.

Ogden (2002) mette in relazione il pensiero di Bion con il personaggio della storia di Borges affermando che nonostante la differenza di tempo in cui il racconto è stato scritto, circa 20 anni prima di “Apprendere dall’esperienza”, “nessuna opera letteraria è riuscita come il “Funes” di Borges nel dar vita per mezzo del linguaggio l’esperienza di chi non è in grado di sognare e di conseguenza, non essere in grado di andare a dormire o svegliarsi”.

Per Ireneo era molto difficile dormire, paradossalmente per lui avrebbe significato essere in grado di svegliarsi dal suo mondo autocreato ingombro di infiniti dettagli che si aggiungono al nulla. Per dormire avrebbe dovuto svegliarsi dal suo stato di “immersione in un mare di percezioni e ricordi inutilizzabili, simili agli elementi beta di Bion”.

In Funes i ricordi non possono diventare inconsci e quindi egli è condannato a una veglia dolorosa che non è un vero stato di veglia: “Gli era molto difficile dormire…. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli quasi immediati”.

Nel pensiero di Bion il sogno è il modello di una mente che funziona e che proprio per questo riesce a creare l’inconscio e a tenerlo distinto dal conscio per mezzo di una barriera che è tuttavia permeabile, la “barriera di contatto”. La visione integrata, “binoculare”, data dall’uso simultaneo di conscio e inconscio permette al soggetto un buon contatto con la realtà esterna e interna. Così, da sveglio, l’individuo può continuare a funzionare restando addormentato rispetto a tutta una serie di stimoli che pur essendo continuamente assimilati non riescono a invadere la mente, ma sono contenuti e restano per la più parte inconsci. Se questo non è possibile, è come se il soggetto si trovasse nella stessa situazione del neonato, la cui coscienza rudimentale manca ancora “… del suo complemento inconscio; vale a dire che tutte le impressioni sensoriali riferite al Sé rientrano nella stessa categoria: tutte sono coscienti” (Bion 1967, pag. 178). Una coscienza in queste condizioni, come l’iper-memoria di Funes, non è in grado di assolvere alle sue funzioni. È per questo che alla nascita il neonato ha un bisogno assoluto che qualcuno adempia al suo posto alle operazioni di filtraggio delle impressioni sensoriali ed emotive primitive. Ha bisogno cioè della ricettività alle sue identificazioni proiettive e della rêverie materna per essere aiutato a introiettare una funzione alfa. La madre “sogna” il bambino, cioè contiene, in modo sempre imperfetto come se fossero tutt’uno, le sue identificazioni proiettive, frutto di operazioni di scissione ed evacuazione non trattabili in altro modo, e negozia per loro un possibile significato.

Scrive Bion: “Se uno, da sveglio o nel sonno, ha un’esperienza emotiva ed è capace di convertirla in elementi alfa , ha poi la possibilità di restare inconsapevole di questa esperienza oppure diventarne cosciente. Chi dorme ha un’esperienza emotiva, la converte in elementi alfa e diventa in tal modo capace di pensieri onirici. Egli ha così la facoltà di rendersene cosciente (cioè di risvegliarsi) e di scrivere la sua esperienza emotiva con un racconto che chiamiamo sogno” (1962).

Dalla teorizzazione di Bion si evince come l’essenziale per la definizione del sogno sia il fatto di svegliarsi e per quella della veglia di addormentarsi.

L’opposto di un bel sogno, non è un incubo ma un sogno che non può essere sognato: ciò che avrebbe potuto diventare un sogno rimane eternamente sospeso in una terra di nessuno dove non c’è né fantasia né la realtà, né oblio né ricordo, né il dormire né lo svegliarsi” (Ogden, 2002).

Letizia D’Andrea e Danilo Maffei

 

Bibliografia

Andreas-Salomè L. (1916). Anal und Sexual e altri scritti psicoanalitici. Rimini, Guaraldi, 1977.

Bion W.R. (1962).Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.

Bion W.R. (1967). Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico.Roma, Armando,1970.

Borges J.L. (1944). Finzioni. Milano, Adelphi, 2003.

Borges J.L. (1960). Borges e Io da “L’artefice”. Milano, Rizzoli, 1963.

Freud S. (1932). Introduzione alla psicoanalisi . Torino,O.S.F., 11.

Freud S. (1925). Alcune aggiunte d’insieme alla “Interpretazione dei sogni”. Torino,O.S.F.,

Grotstein J. (2000). Chi è il sognatore che sogna il sogno?. Roma, Ed. Magi.

Masud Khan M.R. (1983). I Sé nascosti. Torino, Bollati Boringhieri, 1990.

Nathan T. (2011). Una nuova interpretazione dei sogni. Milano, Raffaello Cortina, 2011.

Ogden T.H. (2001). Conversazioni al confine del sogno. Roma, Astrolabio-Ubaldini, 2003.

Ogden T.H. (2002). On not being able to dream. Quinodoz J.M. (2001). I sogni che voltano pagina. Milano, Raffaello Cortina, 2003.

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